Il ventiseienne Rocco Molè voleva vendicare lo zio ucciso e riportare la famiglia in alto nelle gerarchie criminali. Per il narcotraffico verso nord ha ingaggiato chimici colombiani e sommozzatori della marina militare peruviana. E mentre frequentava la comunità Abele di don Ciotti, organizzava il racket in Lombardia

La ’ndrangheta è una moneta con una faccia di modernità affaristica e il rovescio di tragedia greca. Rocco Molè ha ventisei anni ed è già in carcere. Con il suo cognome non ci sarebbe da stupirsi. Il padre Girolamo detto Mommo sta scontando una lunga condanna. Lo zio omonimo è stato ucciso il primo febbraio 2008 a Gioia Tauro in contrada Ciambra, non lontano dal quartiere rom che ha dato il titolo a un film di Jonas Carpignano.

 

In una zona dove i clan decidono quale foglia cade e in che momento, il delitto del 2008 ha segnato una rottura storica fra due clan potentissimi, legati da parentele che la politica matrimoniale del crimine calabrese impone con la cura praticata un tempo dalle grandi casate monarchiche.

 

L’omicidio di Rocco Molè senior, mai risolto da una sentenza, è stato attribuito alla volontà di Giuseppe Piromalli, “Pino Facciazza”, che a maggio del 2021 è tornato a Gioia Tauro dopo 22 anni di galera fra gli ossequi generali. Secondo le ipotesi, Rocco senior sarebbe morto perché parlava troppo con i servizi segreti (indagine Maestro) o perché ficcava il naso nel locale di Oppido Mamertina, a rischio di nuova faida o ancora perché voleva mettere le mani sul porto, ottavo nella classifica europea e numero uno in Italia con 18 milioni di tonnellate mosse nel primo semestre del 2021. Un magistrato con anni di esperienza sul crimine calabrese ricorda: «La ’ndrangheta non uccide mai per un motivo solo ma per una concomitanza di cause».

 

 

Dopo il primo febbraio 2008 non c’è stata la guerra che molti prevedevano. Quattro mesi dopo un altro omicidio, quello di Nino Princi imprenditore legato ai Molè, ha chiuso la partita. Non per Rocco junior. Il ragazzo, che al tempo aveva dodici anni, non ha dimenticato benché il padre avesse deciso di tenersi lo schiaffo e lo avesse comunicato, durante un colloquio in carcere, all’erede che scalpitava per le armi e la vendetta: «Tu hai finito di giocare. Non esiste il gioco, mi dispiace. Io sto puntando tutto su di te perché dico che sei quello più intelligente. Lo so che ti piace. Pure a me mi piaceva all’età tua. Però non avevo questo problema. Siccome c’è questo problema dobbiamo lasciare perdere il giocare. Dobbiamo vedere solo la famiglia e basta».

 

Rocco junior ha interpretato l’ordine a modo suo. Prima è andato a Torino a prendersi un diploma antimafia nella comunità Abele. Aveva diciassette anni e don Luigi Ciotti ha creduto al desiderio dell’adolescente di staccarsi dal suo destino. Sette anni dopo, il 25 marzo 2020, nei terreni del nonno materno di Roccuccio, Antonio Albanese, gli investigatori hanno trovato oltre mezza tonnellata di cocaina, ai prezzi del mercato all’ingrosso fanno una ventina di milioni di euro.

 

«Per la mentalità di Cosa nostra siciliana», dice uno dei principali investigatori di “Nuova narcos europea”, «l’anziano avrebbe dovuto prendersi la responsabilità. Ha già tre condanne per associazione mafiosa passate in giudicato e sconta la pena a casa. Invece il giovane Rocco ha dichiarato che Albanese non sapeva del deposito di droga. È l’assunzione di responsabilità di chi dice: il capo sono io».

 

Le condanne sono l’investitura e lo dimostrano proprio gli ex amici e parenti Piromalli che hanno terreni non lontani da quelli di Albanese in contrada Sovereto, fra il nastro della statale 18 e l’autostrada. Antonio Piromalli, figlio di “Pino Facciazza” e re del mercato ortofrutticolo di Milano, era stato liberato nel 2015. Ora è di nuovo in carcere e cerca di iscriversi in giurisprudenza.

 

 

Studiare è importante. Il Pnrr prevede 111 milioni di euro di investimenti complessivi sul porto che, dopo oltre due decenni di attività, va ancora collegato con la rete ferroviaria nazionale. A metà novembre Teresa Bellanova, viceministro delle Infrastrutture, è venuta al Medcenter container terminal di Gioia per ribadire il potenziamento della struttura che invece il ministro Roberto Cingolani ha escluso dai 270 milioni di euro per la transizione ecologica dei porti. Altro segno della cautela dell’esecutivo è il ritardo nella nomina del responsabile della Zes (zona economica speciale). Ma il potere mafioso a Gioia sa sempre quando i soldi stanno per arrivare come lo sapeva ai tempi del quinto centro siderurgico, poi riconvertito in porto di transhipment. La cerimonia inaugurale fu celebrata nel 1975 dal ministro del Bilancio Giulio Andreotti alla presenza dei fratelli Gioacchino e Giuseppe “Mussu stortu” Piromalli, boss con la passione della politica che nel 1987 si iscrisse al Partito Radicale in carcere e nel 1994 invitò a votare Forza Italia.

Rispetto alle turbolenze che potrebbero creare i fondi del Pnrr, per ora gli investigatori negano l’esistenza di qualsiasi segnale di guerra. È una tranquillità che non significa assenza o immobilità ma consonanza di intenti.

 

La vendetta come vocazione
«Io mi rialzerò un giorno. Un altro anno, due anni, cinque anni, altri dieci anni. Io posso stare sempre così. Io resistenza ne ho. Ne ho avuta per dieci anni. Altri dieci resisto. Ma poi mi alzo e quando mi rialzo, tutti devono passare, chiunque. E io poi me li ricordo tutti, per qualsiasi cosa. Non c’è uno che può scappare».

 

Il ruolo di vendicatore Rocco Molè lo ha cercato da sempre, come una vocazione. Nelle foto degli investigatori è un giovane con pantaloni, maglietta, cappellino alla moda, uno fra tanti. Invece a diciassette anni aveva già fama di grande equilibrio tanto da diventare, secondo il collaboratore Arcangelo Furfaro, il custode dell’arsenale della cosca.

 

Apparentemente dissociato dal suo dna con il bagno nelle acque di Libera, Roccuccio si è messo subito in pista con le estorsioni, sfruttando un nome che sulla Piana di Gioia fa paura fin da quando i Molè erano il braccio armato dei Piromalli, prima che fossero sostituiti nei compiti militari dagli Alvaro di Sinopoli e dai Mancuso di Limbadi, saliti fino ai vertici del crimine a partire da una loro cava utilizzata per i lavori del porto gioiese.

 

Chi gli sta vicino ammira il giovane leader per il suo altruismo nei confronti dei familiari, e sono tanti, caduti sotto il peso delle condanne. «Mantiene a tutti», dice Domenico Iaropoli, uno degli associati di Molè, con qualche esagerazione di calcolo. «Sono seimila carcerati, vedi che ne prendono. Lui però va, torna, va, gira, non si tiene neanche un euro». È un lavoro continuo, negozio per negozio, a tutela della mutualità mafiosa fra i rischi delle norme antiracket e antiriciclaggio. Sono tante le novità che giocano contro il bonus paterfamilias della ’ndrangheta. Per esempio la tecnologia impedisce di dare una lezione ai debitori insolventi, come si faceva ai tempi di Girolamo Molè. «Non sono gli anni Ottanta che c’era suo padre», dice sempre Iaropoli. «Prendevi a uno, lo menavi di legnate per strada e si stavano pure zitti. Qua è pieno di telecamere, di microspie. Se gli dai uno schiaffo, ora glielo paghi». E lo paghi in anni di carcere, magari con le “carrette”, le provocazioni messe in atto dai rivali per costringere il clan avversario alla reazione violenta e denunciarlo alle forze di polizia.

 

Lombardia, provincia di Gioia Tauro
Gli affari correnti dei clan gioiesi combinano arcaismo e modernità. Fra i collaboratori più attivi della rinascita dei Molè c’è Giuseppe Condello, imparentato con il clan dei Brandimarte, protagonisti di una faida locale contro i Priolo. Le tre figlie di Condello erano fidanzate con senso tattico antico: una con Roccuccio Molè, una con Teodorino Crea, nipote omonimo di “Toro ’u murcu”, boss di Rizziconi, la terza con uno Strangio di San Luca.

 

Ma il software criminale ha bisogno di continuo aggiornamento per restare un passo avanti rispetto al contrasto della legge. Al porto di Gioia Tauro la pressione sui container di cocaina in arrivo dall’America è cresciuta? Nessun problema. I trasportatori buttano il carico nelle acque davanti al porto dopo avere impermeabilizzato la droga e averla resa tracciabile via radar su utenze e sim dedicate.

 

A poco più di vent’anni Rocco Molè era in grado di allestire il recupero e la raffinazione in loco chiamando a Gioia Tauro una squadra di palombari della Marina militare peruviana e i chimici arrivati da Bolivia e Colombia, isolati in un appartamento per una settimana fino a conclusione del lavoro, infine rispediti a Roma in Flixbus mentre i corrieri portavano verso nord piccole quantità di coca, fra dieci e trenta chili. Alcuni dei panetti sequestrati erano marchiati con i simboli della massoneria, uno degli elementi fra i più singolari dell’inchiesta reggina che riporta alle frequentazioni massoniche di Rocco Molè senior con ex piduisti come Giorgio Hugo Balestrieri e massoni irregolari ma molto ben inseriti nelle istituzioni come Cosimo Virgiglio.

 

E quando non bastavano le banchine di Gioia, dove i sudamericani fingevano di andare a pesca con canna e mulinello, c’era Livorno. Qui il gruppo di Roccuccio aveva ingaggiato alcuni portuali disponibili a infiltrare i gioiesi nei limiti della zona riservata agli addetti ai lavori.

 

La principale area di spaccio rimane la Lombardia, dove il boss Carmelo Novella aveva deciso di rendere le ’ndrine autonome dalla casa madre. Un’idea moderna, troppo moderna, che gli era costata la morte cinque mesi dopo Rocco Molè, il 14 luglio del 2008 a San Vittore Olona, nell’alto milanese.

 

Oltre un decennio dopo i Molè sono di casa tra le province di Varese e Como e fino in Svizzera, secondo l’inchiesta della Dda milanese “Cavalli di razza”, conservando le logiche di spartizione decise sulla Piana. Il gruppo dei Molè spaziava dal distributore di carburanti di Bulgarograsso (Como), oggetto di un’asta turbolenta in cui un piccolo imprenditore lombardo, l’indagato Flavio Fertonani, si fa soccorrere dai calabresi in cambio di 50 mila euro contro altri calabresi. Alla fine, deve intervenire la casa madre gioiese per comporre il conflitto in modo pacifico.

 

Un’altra vicenda riguarda la Tecno Recuperi di Gerenzano. Fondata da Aldo Galli, scomparso nel 2019, la società è gestita dal figlio Paolo, piccolo imprenditore proprietario del Football club Saronno, che disputa il campionato di promozione, la sesta serie dei tornei nazionali. Qui c’è estorsione classica ma con modalità aggiornate. Gli imprenditori taglieggiati dovevano ricaricare per migliaia di euro le carte Poste Pay messe a disposizione dai Molè.

 

L’episodio tragicomico è l’aggressione di una macchina di poliziotti in borghese della Mobile di Milano che vengono scambiati per delinquenti comuni mentre sorvegliano il gruppo di Rocco Molè in un’area di parcheggio camion a Turate, subito a nord di Saronno. Antonio Salerni, uno degli arrestati di novembre, va a prendere a calci l’auto dei presunti ladri urlando: «Questo è il territorio dei Piromalli». Sarebbero due cosche in lite ma su al nord il nome dei Piromalli funziona meglio per farsi capire da chi, secondo la terminologia delle ’ndrine, «non sa chi sono i cristiani». Adesso, e per qualche anno, Rocco Molè è fuori gioco. I lavori al porto, c’è da scommettere, procederanno tranquilli.