Per capire i rischi della situazione a Kabul bisogna tornare in Anbar, quando gli Stati Uniti si allearono con i Sunniti. Favorendo la nascita dell’Isis

«Il realismo alla fine dell’intervento è quasi importante quanto il realismo dell’inizio».
Potremmo facilmente pensare che queste parole siano state scritte a proposito del ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, invece sono tratte da un libro del 2017, “Illusions of Victory: The Anbar Awakening and the Rise of the Islamic State” (“L’illusione della vittoria, il risveglio dell’Anbar e la nascita dello Stato Islamico”).
Lo ha scritto quattro anni fa Carter Malkasian, consulente civile in Iraq e Afghanistan, per capire per capire come, in dieci anni, la provincia di Anbar si sia trasformata da cuore della resistenza sunnita contro gli americani ad alleato della strategia antinsurrezionale dell’esercito statunitense, per poi tornare ad essere il cuore del fondamentalismo dell’Isis.
Seguire il percorso di quegli anni, l’occupazione statunitense del 2003, la guerra civile irachena, l’alleanza con le comunità sunnite dell’Anbar, il ritiro delle truppe da parte di Obama e la nascita dell’Isis, ci aiuta a tracciare un percorso che porta dritti a Kabul, oggi.
Dopo l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, in Anbar cominciarono le prime insurrezioni, le istituzioni erano collassate velocemente, così come l’esercito ed era stato avviato un violento processo di de-baathificazione, cioè la rimozione dei membri del partito Ba’ath di Saddam Hussein dai pubblici uffici.

La regione di Anbar (antico bacino del consenso del dittatore) era diventata il centro della resistenza sunnita alle forze americane.
Resistenza dominata da Al Qaeda e dal suo leader, il jihadista giordano Abou Moussab al-Zarqawi.
Il messaggio di Al Qaeda in Iraq era semplice: espellere gli Stati Uniti e stabilire uno Stato islamico in Iraq.
Dopo due anni, all’inizio del 2006, era chiaro che le strategie americane in Iraq non stavano funzionando: le perdite per gli Stati Uniti aumentavano, Al Qaeda era solidamente supportata a Ramadi, e a Baghdad era in corso una violenta guerra civile dopo che, alla fine di febbraio, gli uomini di al- Zarqawi si erano fatti esplodere nella moschea al-Askari, la famosa moschea d’oro di Samarra, uno dei luoghi più sacri per gli sciiti.
Nemmeno la morte di al-Zarqawi, ucciso durante un attacco aereo congiunto compiuto da forze statunitensi e giordane vicino Ba’quba, aveva intaccato la struttura e la pervasività di Al Qaeda, anzi ne aveva alimentato il potere simbolico.
Sempre nel 2006, il Washington Post, dopo aver visionato dei report riservati dell’esercito sulla situazione irachena, aveva riportato le parole di Peter Devlin, allora alto funzionario dell’intelligence militare con il Marine Expeditionary Force, secondo cui l’esercito statunitense non era più in grado di gestire l’insurrezione locale nell’Iraq occidentale e contrastare il crescente consenso per Al Qaeda.
Disse: «Le truppe americane non sono più in grado di sconfiggere militarmente l’insurrezione».
Quell’anno però in Iraq successe anche qualcosa di inaspettato: alcuni leader tribali di Ramadi si schierarono contro Al Qaeda, creando le proprie milizie, in un movimento noto come Sahawa al Anbar (o “Anbar Awakening”, Risveglio Sunnita).
Gli americani decisero di appoggiare il risveglio sunnita, militarmente e economicamente, addestrando e finanziando i leader tribali e le loro milizie rinominate “Sons of Iraq”, i figli dell’Iraq. Nel breve periodo, il risveglio sunnita finanziato dagli americani diede i suoi frutti: i leader qaedisti lasciarono le città per ripiegare nel deserto o nei villaggi lontani.
A metà 2007, la calma della provincia di Anbar era surreale se paragonata alla guerriglia di pochi mesi prima.
La combinazione era sembrata vincente: le tribù occidentali dell’Iraq si erano unite per opporsi all’insurrezione e il nascente Stato Islamico Iracheno sembrava sepolto, il governo dominato dagli sciiti aveva mantenuto un controllo sostanzialmente totale del territorio per la prima volta dopo l’inizio della guerra, nel 2003.
Era l’illusione dell’Anbar, per citare ancora Carter Malkasian.
Era il momento ideale per ritirarsi, e Obama l’ha fatto, dichiarando: «L’Iraq non è un posto perfetto. Ha molte sfide davanti, ma ci stiamo lasciando alle spalle un Iraq sovrano, stabile e autosufficiente, con un governo rappresentativo eletto dal suo popolo».
Era la fine del 2011.
Tre anni dopo, nell’estate del 2014, i convogli dell’Isis con le bandiere nere entravano a Mosul, i miliziani proclamavano il Califfato. Le città cadevano, una dietro l’altra.
Nel mezzo, nei tre anni che hanno diviso il ritiro delle truppe e la proclamazione del Califfato, una stagione di discriminazione e emarginazione delle comunità sunnite.
Il premier al Maliki aveva fatto arrestare i capi politici sunniti, e i vertici di Al Qaeda in Iraq avevano ricominciato a sfruttare l’onda della crisi, approfittando della crisi siriana.
La regione di Anbar aveva cominciato ad essere usata come punto di partenza delle incursioni dei ribelli in territorio siriano proprio nel periodo del ritiro dei soldati americani dall’Iraq.
Le province più lontane da Baghdad, Ninawa, Anbar, erano rimaste di fatto escluse dal controllo del governo centrale e diventate in poco tempo la base operativa dei gruppi qaedisti. Quando i sunniti iracheni tentarono di protestare pacificamente la loro emarginazione nelle ondate di manifestazioni del 2012 e 2013, i manifestanti erano stati violentemente assaltati, le proteste represse dalle forze di sicurezza governative. Così è stato che la furia dell’Isis che si è scatenata nel 2014 è stata sostenuta anche dalle tribù sunnite, le stesse che furono usate per arginare Al Qaeda nel 2008, i figli dell’Iraq. Gli (ex) alleati degli americani.
Il paese che Obama aveva definito «sovrano, stabile e autosufficiente» crollava.
Per anni la strategia americana nella regione di Anbar era stata ritenuta un esempio di contro-insurrezione: lavorare per alleanze con le tribù locali contro un nemico comune.
Una serie di alleanze pericolose (e costose) che però erano servite a raggiungere rapidamente gli obiettivi. Salvo poi ritorcersi contro gli ex alleati.
Il successo dell’Isis nel 2014 è stato anche il risultato di tutti questi fattori.
Di non avere avuto una strategia di uscita.
L’addestramento, le alleanze con i capi tribù e i soldi non erano riusciti a rendere durevole quella che era, evidentemente, un’illusione.
Un successo temporaneo ed effimero.
Di nuovo: l’illusione dell’Anbar.
Nel 2014 Biden era vicepresidente, aveva assistito dalla Casa Bianca all’entrata a Mosul dei miliziani di al-Baghdadi e alle sorti di un esercito, quello iracheno, foraggiato, addestrato, armato per anni dagli americani, che crollava lasciandosi alle spalle uniformi, armi e munizioni.
La storia gli aveva già dimostrato, dunque, che le insurrezioni locali, anche se meno addestrate e meno equipaggiate, anche se dotate di meno uomini (in Iraq il rapporto era 15 soldati ogni miliziano dell’Isis) hanno dalla loro il tempo, la pazienza e la motivazione.
La storia gli aveva già dimostrato che quando le forze occidentali gridavano vittoria, tronfi di aver sconfitto l’insurrezione locale, dietro l’angolo c’era già il gruppo successivo, con nuovi martiri pronti a morire in nome del jihad.

Ci sono differenze certo, tra l’Iraq del 2011 e l’Afghanistan del 2021.
Se l’Iraq dava timidi segnali di ripresa e stabilità dieci anni fa, i mesi che hanno diviso la firma degli accordi di Doha e il ritiro delle truppe americane di agosto, invece, sono stati segnati da una recrudescenza della violenza, da un’ondata di omicidi mirati ai danni di attivisti, giornalisti, politici locali e forze di sicurezza e da plateali violazioni degli accordi da parte dei talebani.
Il governo di Ashraf Ghani, escluso dalle negoziazioni in Qatar e già privo di credibilità, è stato ulteriormente indebolito, il livello di corruzione della classe politica ha fiaccato la capacità delle forze armate di proteggere il territorio e le poche forme di resistenza ai talebani, le milizie locali, sono state percepite come il triste déjà-vu di un ritorno agli anni dei signori della guerra e del conflitto civile.
Il ramo locale dell’Isis, l’IS-K (Khorasan), intanto, conduceva 77 attentati in quattro mesi, come segnalato da un report del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dello scorso 21 giugno.
I segnali della disfatta imminente, culminati nel tragico attentato del 27 agosto, c’erano tutti.
Bisognava decidere se ripensare gli accordi di Doha e restare o come uscire.
Per chi restare, soprattutto, e a favore di chi uscire.
Biden l’aveva sottolineato nel discorso in cui annunciava il ritiro: «La nostra presenza in Afghanistan dovrebbe essere focalizzata sul motivo per cui siamo andati lì: garantire che il Paese non fosse usato come base da cui attaccare di nuovo la nostra patria. L’abbiamo fatto. Abbiamo raggiunto questo obiettivo».
Era la sicurezza nazionale la spinta per l’intervento militare.
La sicurezza nazionale statunitense, non quella afghana. Biden ha confermato il ritiro pensando che i talebani di Doha, i moderati, avrebbero tenuto fede agli impegni presi con l’amministrazione precedente. L’ha confermato senza condizioni.
I talebani non erano però diventati moderati, erano piuttosto diventati pragmatici. E non sono mai stati davvero sconfitti, hanno anzi avuto tempo di riorganizzarsi con il credito della legittimazione al tavolo dei negoziati.
Perché, mentre le truppe preparavano il ritiro, è diventato sempre più chiaro che americani e afghani stessero da anni combattendo due guerre diverse.
Ora che le truppe sono andate via e i talebani hanno festeggiato all’aeroporto, i pochi risultati raggiunti rischiano di vanificarsi. L’Isis-K ne trarrà beneficio, come ne ha tratto in Iraq, dieci anni fa dopo il ritiro di Obama, combattendo un piano ancora diverso dello stesso conflitto, contro i talebani da una parte, contro i collaborazionisti e contro gli occidentali dall’altra.
L’illusione dell’Afghanistan, potremmo dire, mutuando Malkasian.
E la distorsione dello sguardo che troppo spesso gli occidentali posano su realtà dominate da scontri etnici, religiosi e in cui il tempo scorre su un orologio diverso.
Il tempo della vendetta americana, per esempio, del drone lanciato su Nangarhar il giorno dopo l’attentato all’aeroporto Karzai di Kabul, non è il tempo dell’Isis-K, che da quella vendetta trarrà il beneficio della macchina simbolica.
Quello che per gli americani è un potenziale kamikaze, per i fondamentalisti è un martire.
Per ogni martire che muore, altri dieci sono pronti a seguirne l’esempio.
Un giorno, era da poco finita la guerra a Mosul, uno studente iracheno mi disse: l’errore più grande degli americani non è stato il 2003, non è stata l’invasione. È stato il 2011. Andare via da qui, senza un progetto, lasciandoci in un vuoto che è stato velocemente riempito da altri.
Sembra di parlare dell’Afghanistan, oggi.
Dell’illusione di questi venti anni, soprattutto.