L’8 agosto del 1956 262 uomini morirono intrappolati sottoterra. 136 erano connazionali, attirati in Belgio dalle promesse dei due governi di una buona paga e condizioni di lavoro sicure

«Condizioni particolarmente vantaggiose vi sono offerte per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe». Questa frase campeggiava nei manifesti rosa affissi in ogni angolo dell’Italia del dopoguerra, dai circoli degli zolfatai, alle chiese rimaste in piedi dopo le distruzioni del conflitto. Veniva venduto come il lavoro della libertà economica, della stabilità, quello nelle miniere di carbone del Belgio, tanto che molti furono affascinati da quei grandi volantini rosa e decisero di preparare la valigia di cartone, prendere il treno con il solo biglietto di andata nelle affollate stazioni del Sud, per andare in quella che era, per molti “L’America”.


Quello che si celava però dietro al protocollo italo-belga, firmato nel 1946 dai due paesi, non era scritto sulle tabelle: in cambio di 50 mila emigrati impiegati nelle miniere, l’Italia avrebbe ricevuto carbone, barattato per la partenza di centinaia di migliaia di persone, città intere del meridione svuotate per un patto che sarebbe durato 10 anni. Fino all’8 agosto del 1956, giorno che cambierà per sempre la storia delle miniere di carbone.

 

«Sono arrivato in Belgio che ero giovane», racconta il marchigiano Urbano Ciacci, 86 anni, fisico scheletrico e occhi lucidi. «Nel 1956 ero già da qualche anno al lavoro a Marcinelle, ma quando ho conosciuto questa signorina (dice emozionato indicando la sua compagna di vita) abbiamo deciso di sposarci e siamo tornati in Italia. Il giorno dopo il matrimonio dovevamo partire ma per un disguido non era arrivato il nulla osta per mia moglie. Non potevo lasciarla da sola, quindi ho deciso di ritardare la partenza di un giorno».

 

Quando arriva, il 10 agosto, per il suo primo giorno di lavoro dopo il matrimonio, si reca a Bois du Cazier con la sua tuta blu ma trova soltanto fumo e tanta gente davanti il cancello della miniera: «Alla stazione di Milano avevo letto in un giornale cosa era successo: “Un incendio a Marcinelle, gli operai sono tutti morti”, ma lo nascosi a “ella” sul treno», dice in un italiano che ormai è solo memoria degli anni vissuti a Fano, «altrimenti sarebbe voluta tornare indietro».

 

Quel giorno in più invece gli salva la vita: Urbano Ciacci, infatti, doveva essere una delle tante “medagliette”, precisamente la numero 709, in fondo a quel tunnel che si infiamma uccidendo per l’incendio e per asfissia 262 persone di cui 136 immigrati italiani, partiti dopo quello scriteriato patto che mostrava come sicure miniere in cui invece bisognava lavorare in ginocchio, tra i topi, respirando carbone, con effetti sui polmoni che si sarebbero visti dopo anni. Un banale incidente farà scattare la scintilla che ucciderà coloro che si trovavano dentro la miniera (solo 13 si salveranno) e manderà in fiamme anche lo stesso Patto, messo in discussione subito dopo quella tragedia.

 

Il lavoro “dei sogni”, ben retribuito, come annunciato dai manifesti, nascondeva infatti condizioni di lavoro al limite e scarsa sicurezza, come nel caso dell’incendio che uccise gli occupanti della miniera: due carrelli rimasti sporgenti nell’ascensore, per un’errata comunicazione tra i manovratori, rimasero in bilico durante la fase di discesa e tranciarono i cavi, l’aria compressa, la corrente elettrica, provocando un incendio che fece morire, soprattutto per mancanza di aria, gli occupanti del pozzo.

 

«Le norme sulla sicurezza arriveranno dopo quell’incendio», racconta Vincenzo Mentino, maestro del lavoro, console del Benelux e tra coloro che non hanno voluto cancellare la memoria, creando un museo a Bois Du Cazier. «Le cose non stavano come venivano raccontate dai manifesti, per questo noi vogliamo mantenere vivo il ricordo di chi non c’è più e abbiamo fatto di tutto per evitare che questo luogo diventasse un centro commerciale».

 

A Charleroi, dove si trova Marcinelle, adesso diventato un museo che accoglie centinaia di migliaia di persone l’anno, tutto parla di miniera e anche in ospedale alcune gigantografie ricordano che quello è il paese del carbone, e quella che rimane una delle più grandi tragedie europee avvenute sottoterra. «Quello che mi sono trovato davanti non era bello», racconta ancora Urbano Ciacci mentre fa partire con un fiammifero la vecchia lanterna che usava lui in miniera. «C’era chi gridava e chi piangeva, chi cadeva per terra dopo una notte passata ad aspettare buone notizie».

 

Queste non arriveranno mai, e Urbano continuerà a lavorare per un altro decennio in quella miniera diventata simbolo di morte. Ma chi era arrivato qualche anno prima non sapeva a cosa andava incontro: «Io in Italia avevo tanti debiti», ricorda Valentino Di Pietro, 86 anni, che ha assistito alla tragedia di Marcinelle ma lavorava in una miniera vicina. «Nei manifesti non lo dicevano che era un lavoro duro, che bisognava lavorare in miniera almeno 5 anni, altrimenti non potevi mettere più piede in Belgio. Per il taglio del carbone dovevamo stare in ginocchio e quando uscivamo dalla miniera eravamo così neri che le mogli che aspettavano fuori non ci riconoscevano e baciavano un altro minatore».

 

Ci scherza su, Valentino, giurando che a lui è accaduto, mentre nella sua casa pagata con il sudore della miniera prepara il caffè, italiano nelle intenzioni, ma lungo, come quello belga, segno del paese dove ormai ha messo le sue radici, perché è quello che comunque gli ha dato un lavoro. Quel lavoro però era rischioso e chi ogni giorno scendeva in miniera dava due baci ai figli, nel caso non dovessero tornare più in superficie.

 

Tra coloro che se lo aspettavano c’era Ciro Natale Piccolo, della provincia di Udine, anche lui partito dopo la firma del protocollo Italia-Belgio, siglato da De Gasperi, come ricordano tutti. Morto a 30 anni quell’otto agosto, ogni giorno imprecava e bestemmiava, come ricorda la figlia: «Mio padre diceva sempre che un giorno sarebbero morti tutti come topi se fosse successo qualcosa», racconta Loris Piccolo, che vive ricordando ogni giorno il padre nella sua casa a due passi dalla miniera. «Quel giorno mia madre vide il fumo e si mise a correre veloce verso la miniera. Quando tornò ci disse che non avremmo più rivisto nostro padre».

 

È arrabbiata Loris, che nella sua casa di uno stile che ricorda l’Italia degli anni 60 ha tutti i giornali di quel giorno, dei processi che sono seguiti per cui non pagò mai nessuno, nonostante le accuse all’azienda, e tiene anche una copia di quel manifesto rosa, simbolo di tradimento: «Macché bene. In Belgio pagavamo 40 franchi al giorno per stare nelle baracche d’alluminio dove prima mettevano i prigionieri della Seconda guerra mondiale, loro costretti con la forza a lavorare in miniera». Una schiavitù, appunto, seppur pagata, relegata prima ai prigionieri di guerra e poi agli italiani costretti a firmare per almeno 5 anni, altrimenti dovevano tornare in patria.

 

La stessa realtà era stata pure mostrata in un film commissionato al regista belga Paul Mayer dal ministero per l’Istruzione, poi censurato dallo stesso, con addirittura l’accusa per il direttore di appropriazione indebita di fondi statali. In “Déjà s’envole la fleur maigre”, Mayer, attraverso l’utilizzo di attori-minatori italiani, aveva descritto tutte le storture del patto, le sofferenze di ragazzi umiliati sottoterra da un lavoro straziante e le condizioni di lavoro al limite della sopravvivenza. Il governo voleva invece una pagina patinata che onorasse le miniere.

 

Solo pochi anni fa quel lavoro è stato mostrato al pubblico, mentre Paul Mayer, apprezzato regista, è morto isolato dal suo stesso paese perché aveva messo davanti alla telecamera la cruda realtà. La stessa che venne mostrata alle centinaia di persone che stavano davanti il cancello di Bois du Cazier, quell’otto agosto di 65 anni fa, quando invece la storia del Belgio, delle miniere e degli emigrati in Italia partiti in cerca di un futuro migliore cambierà per sempre. Tutto andrà in fumo, come quei corpi i cui nomi oggi vengono ricordati in una stanza in maniera continua dA una cantilena ridondante e ininterrotta che rompe il silenzio nel museo di Marcinelle.