La città belga, ex potenza siderurgica, sta per diventare un centro vitale per il gigante dell’ecommerce. Ma gli ambientalisti non ci stanno. E non mancano le implicazioni geopolitiche

Un susseguirsi di gigantesche matasse di tubi arrugginiti, i bracci più alti a trafiggere la foschia del cielo, annodati tra loro dalle acque chete della Mosa e dai binari scuri della ferrovia. Così si delinea dall’alto della collina del Piron, formata da scarti minerari, la Liegi del Novecento, i decenni d’oro in cui la capitale della Vallonia è stata potente centro siderurgico e riottosa città operaia.

«Da questa parte della collina c’è tutto il brutto e il povero», indica Cedric Leterme, ricercatore a Liegi presso il centro di studi sulla mondializzazione Cetri, indicando gli stabilimenti di Arcelor-Mittal e soffermandosi con l’indice in aria sui serpentoni di minuscole casette a schiera che si arrampicano sulle colline di riporto intorno agli argini del fiume. Sono alcuni dei quartieri operai - Seraing, Flemang, Saint Nicholas – adiacenti alle fabbriche. «Dall’altra parte», e il braccio vola oltre il bosco del Piron, verso la Cittadella antica, «la parte bella», quella dell’università e del teatro dell’Opera, e dei palazzi ottocenteschi dei signori del carbone e dell’acciaio, che due secoli fa, quando Liegi era la seconda potenza industriale del mondo, avevano preso il posto fisico e spirituale delle torri della Liegi episcopale del Medioevo.

 


Quella che è stata una delle città più ricche del Nord Europa, al centro del mitico triangolo d’oro – Londra, Francoforte e Parigi – per cui passa ancora oggi il 60 per cento del traffico europeo di merci, è oggi una città in cerca di identità, insieme forte del suo passato e fragile verso le sfide del futuro. Con la chiusura delle miniere belghe negli anni Ottanta e la crisi della siderurgia europea, Liegi, orgogliosa e indomita, insignita della Legione d’onore francese per avere tenuto testa ai tedeschi durante la Prima guerra mondiale, è rimasta orfana della sua fama.

 

Gli anni Novanta però, oltre alla crisi, e a tassi di disoccupazione a doppia cifra, portarono con se il vento delle liberalizzazioni. Gli aeroporti divennero proprietà degli interessi locali. E i socialisti valloni, che della regione sono padri-padroni da generazioni, appoggiati dai liberali, partito di riferimento delle élite imprenditoriali, hanno intravisto nella logistica il settore con cui riscattare un ventennio di declino e costruire un nuovo primato. Erano gli anni della globalizzazione. Del commercio internazionale. Liegi non solo si trovava in una posizione strategica, a pochi chilometri dalla Germania e dall’Olanda, e a pochi di più dalla Francia, ma era anche l’archetipo della città intermodale: terzo porto fluviale d’Europa, con una ferrovia dove passava l’alta velocità e un aeroporto regionale già adibito al trasporto merci. Un quarto di secolo più tardi, l’arrivo di Alibaba, il campione dell’e-commerce che nell’aeroporto di Liegi sta costruendo il principale centro di distribuzione europeo, sembra giustificare le scelte di allora e portarne a compimento la strategia.

 

 

Quando il prossimo ottobre la filiale logistica del colosso cinese, Cainiao, aprirà i battenti di un deposito da 33mila metri quadrati, Liegi assumerà per Alibaba lo stesso rango di Hangzhou, Dubai, Kuala Lampur e Mosca, tutti centri vitali sulla Via della seta digitale. L’investimento da 75 milioni di euro è solo il primo di quattro in dieci anni su quasi 200mila metri quadrati di terreno che l’aeroporto ha dato in leasing ai cinesi per i prossimi 50 anni. In un succedersi emblematico di eventi, Alibaba assume manodopera nel momento in cui l’americana Fedex, per anni principale fonte di reddito dell’aeroporto, licenzia. Mentre i camion portano le finiture all’interno dei cubi grigi e neri di Alibaba, tute blu appendono lenzuoli di protesta alle finestre dei cubi arancioni di Fedex: «TNT ci ha nutrito, Fedex ci ha tradito». Partono gli americani, dopo una fusione fallita, e arrivano i cinesi. Obiettivo: sfidare Amazon in Europa, facendo arrivare dalla Cina le merci nel giro di 48 ore. Una nuova globalizzazione, in barba alla retorica del Green Deal.

Ma è sul Green Deal, sui desideri delle nuove generazioni che in fabbrica non hanno mai lavorato, e che rifiutano la logica della ciotola di riso, che il piano si incaglia. «L’arrivo di Alibaba è insieme un disastro ambientale e un rischio geopolitico non indifferente», attacca Leterme, che si è unito a “StopAlibaba”, uno dei tanti movimenti cittadini che tentano di arrestare l’ascesa dell’operatore cinese a Liegi: «Quel modello di business ha fatto il suo tempo: mezza Europa non lotta contro Amazon per vederla poi rimpiazzata da Alibaba».
 

Tre sono gli ordini di problemi sollevati dagli attivisti che la politica vallone, e ora anche quella nazionale, non riesce più ad ignorare. Innanzitutto l’inquinamento ambientale. Secondo Pierre Ozer, ricercatore del dipartimento di Scienze e di gestione dell’ambiente dell’università di Liegi, le emissioni prodotte dall’aeroporto nel 2020 annullano tutti gli sforzi compiuti dalla Vallonia per ridurre i gas a effetto serra. Per raggiungere il suo record di 1,2 milioni di tonnellate di merce trattata nel 2020 (un balzo del 24 per cento dall’anno precedente, grazie alla pandemia), l’aeroporto ha venduto 616 milioni di litri di carburante in più.

Un trend, conferma l’aeroporto, dovuto soprattutto al traffico con la Cina, che, con l’arrivo di Alibaba, è destinato a crescere esponenzialmente proprio nel momento in cui il settore aereo europeo ha giurato di diventare “neutrale” entro il 2050. Poi c’è la questione del rumore generato soprattutto dai decolli degli aerei. «Per vincere la concorrenza dell’aeroporto di Maastricht, Liegi ha fatto dumping sonoro», sottolinea Leterme. È l’unica città d’Europa in cui gli aerei di qualsiasi tonnellata possono decollare e atterrare a qualsiasi ora del giorno e della notte senza limiti. «È questione di business», precisa l’aeroporto, la cui attività è considerata così vitale per l’economia regionale che il ministro vallone delle Finanze e del Budget è anche ministro degli Aeroporti (di Liegi e Charleroi). «Le autorità politiche hanno scelto di indennizzare i cittadini anziché salvaguardarne la salute», dice Oliver Bierin, il giovane deputato verde del parlamento vallone che si è intestato la lotta contro Alibaba: «Un euro all’aeroporto, uno ai cittadini. Milioni di euro in sovvenzioni. Non sapendo come creare impiego, il governo offre alla sua vecchia base operaia un lavoro poco qualificato nella logistica e, a chi si lamenta dell’inquinamento in tribunale, aggiunge un indennizzo economico».

Ma la questione che più preoccupa Bruxelles è quella geopolitica. Se fino a due anni fa nessuno considerava la Cina una minaccia alla sicurezza nazionale, tanto che perfino re Filippo si spese personalmente nel 2018 per convincere i cinesi ad investire a Liegi, oggi la diffidenza è in rapida ascesa.

 

Non hanno aiutato i casi di spionaggio all’interno delle università belghe che hanno portato alla chiusura degli Istituti Confucio in tutto il Paese. E nemmeno la notizia dell’utilizzo di ambasciate amiche intorno al palazzo del Berlaymont, sede della Commissione europea, come centri di spionaggio su commissari e ministri europei. Tanto più che Alibaba non è solo un’impresa logistica ma uno dei colossi digitali mondiali, presente in ogni settore, capace di raccogliere miliardi di dati personali e di trasferirli, alla prima richiesta, al governo cinese. Non solo. La legge sulla sicurezza cinese del 2017 obbliga tutte le imprese cinesi a collaborare con i servizi segreti e a prevedere tra i propri dipendenti, in qualsiasi Paese si trovino, una quota di agenti. «Il rischio per la sicurezza riguarda non solo il Belgio ma tutta l’Europa», precisa Samuel Cogolati, parlamentare nazionale verde: «L’Europa non può diventare un pedone della strategia espansionistica della Cina. Dobbiamo difendere le nostre conquiste, i diritti umani e la protezione della privacy, non sacrificarle sull’altare dell’e-commerce».
 

Il Belgio non è pronto. La direttiva europea del 2019 sul vaglio degli investimenti stranieri che possono mettere a repentaglio la sicurezza nazionale non è stata ancora approvata da un parlamento in cui le ragioni di parte prevalgono su quelle nazionali. Quando il viceministro federale con delega alla Giustizia, Vincent Van Quickenborne, ha riferito in Parlamento il mese scorso di essere stato messo in guardia dai servizi segreti sull’utilizzo da parte della Cina dei dossier economici per esercitare pressione politica, come potrebbe essere il caso a Liegi, il ministro degli aeroporti vallone, Jean-Luc Crucke, ha ribattuto seccamente che la riflessione di Quickenborne, un fiammingo, era frutto «di gelosia».

Resta il dato che ridurre il ruolo dell’aeroporto per i socialisti valloni equivarrebbe ad ammettere che gli ultimi 20 anni di piani di rilancio economico sono andati nella direzione sbagliata. Che affidare il proprio futuro a un colosso cinese potrebbe non rivelarsi una buona idea. In molti, soprattutto giovani, hanno preso a protestare. A Liegi, e non solo. Attaccando poster di notte contro Alibaba e, soprattutto, contro una visione del futuro che a loro non appartiene più. «Stiamo facendo gli stessi errori di trent’anni fa in nome dell’occupazione, puntando su settori che fanno male alla città e ai suoi cittadini, senza renderci conto che ne creeremmo molta di più se investissimo in un’agricoltura meno intensiva e di qualità, nell’educazione e nella cura», dice Bierin: «Tutti settori ad alto impiego di personale ma più qualificato di quello della logistica, e non sottomesso ai modi e ai tempi delle macchine». E tantomeno ai diktat di una nuova potenza egemone.