Una biografia e una raccolta di saggi rilanciano le figure di due donne americane diverse per generazione, stile, destino. Ma unite dal desiderio di andare a caccia della verità

Joan Didion e Marie Colvin hanno tracciato la storia del giornalismo internazionale. La carriera di Joan Didion è lunga cinque decenni. Ha lavorato come saggista, romanziera e sceneggiatrice, meritando un posto di rilievo nel canone letterario americano. Marie Colvin è stata una reporter di guerra pluripremiata, corrispondente Affari esteri per il Sunday Times. È deceduta nel 2012 a Homs, durante uno dei suoi reportage, sotto i bombardamenti del regime siriano, dopo aver già perso un occhio nel 2001, colpita da una granata mentre realizzava un servizio sulla guerra civile in Ski Lanka. Entrambe hanno sfidato insidie strazianti, affermandosi grazie al loro coraggio e alla loro lucidità.

 

Due stili differenti, due generazioni, due battaglie condotte su fronti diversi, eppure la forza e lo spirito intrepido dei loro testi si impongono oggi ai lettori con due saggi: “Let me tell you what I mean”, una raccolta di pezzi inediti (1968-2000) di Joan Didion pubblicati dall’inglese Knopf, e “In prima linea”, articoli e reportage dal fronte di Marie Colvin, edito in italiano da Bompiani.

 

Joan Didion ha introdotto nel racconto documentario il potere metaforico e soggettivo della grande narrativa. Nel 2013 il presidente Barack Obama l’ha premiata, insieme a George Lucas, Tony Kushner e altri scrittori, con la National Medal of Arts e la National Humanities Medal. «Sono sorpreso che non abbia ricevuto prima questo premio», ha dichiarato l’ex presidente americano.

 

Molte delle persone ricompensate venivano celebrate da decenni, Joan Didion è riuscita a rubare loro la scena: a 86 anni, il suo corpo eccezionalmente minuto, sottile, fragile, nasconde una resistenza decisiva al dolore.

 

La vita della giornalista è un film scritto nelle rughe del volto, nei suoi occhi duri, nei suoi reportage che rivelano un certo humor e un senso di disperazione. Nel bel documentario “ The center will not hold“, diffuso nel 2017 da Netflix e realizzato da Griffin Dunne, Didion racconta pezzi della sua storia mentre le sue lunghissime braccia ossute danzano, disegnando cerchi d’aria. All’inizio della sua carriera c’è un quadernetto offertole dalla madre, quando aveva cinque anni e la famiglia viveva in California.

 

Il primo appunto riguarda una donna, che crede di morire di freddo nella notte artica ma, all’alba, si rende conto di trovarsi nel deserto del Sahara, dove morirà prima di mezzogiorno. Una precoce predilezione per l’eccesso e l’ironia. A vent’anni, dopo un diploma in letteratura all’Università di Berkley, vince un concorso per lavorare a Vogue, in un periodo in cui le caporedattrici portavano cappelli e guanti per differenziarsi dalle assistenti. Il suo primo pezzo per la rivista è “On Self-Respect: Its Source, Its Power”.

 

Con esattezza chirurgica descrive una grandiosa intuizione, il segreto degli individui che hanno saputo affermarsi, tracciando il proprio cammino: l’autostima. «Le persone che hanno rispetto di sé dimostrano una certa solidità, una specie di forza morale; hanno quello che una volta si chiamava carattere, una qualità che, sebbene approvata in astratto, a volte perde terreno a favore di altre virtù più immediatamente negoziabili (…). Il carattere, o la volontà di assumere la responsabilità della propria vita è la fonte dalla quale sorge la stima di sé». Visione arguta dell’unica arma indispensabile per battersi in un mondo generalmente ostile, soprattutto nei confronti di donne decise ad affermarsi grazie al talento.

 

Attirata da personaggi fuori norma, Didion racconterà l’America degli anni ‘60 e ’70, penetrando nel cuore del quartiere hippie di San Francisco, poi in un ghetto nero. Incontrerà i Doors e i Black Panthers, scriverà dalle colline di Los Angeles, terrorizzate dalla “famiglia” Manson. Glamour e tragedia convivono nella sua vita. Trasferitasi a Malibu con il marito John Gregory Dunne, giornalista al Time, ha frequentato le più grandi personalità dell’epoca, tra cui Brian De Palma, Steven Spielberg, Martin Scorsese.

 

La figlia adottiva, Quintana, è una ragazzina bionda dallo sguardo pensieroso. Nel 2005, in “L’anno del pensiero magico”, uno dei suoi libri più noti, Joan Didion racconta l’anno nel quale ha perso il marito e in cui sua figlia trentanovenne è all’ospedale afflitta da polmonite, morendo più tardi di pancreatite. «La vita cambia rapidamente. La vita cambia all’istante. Una sera ti metti a cena e la vita come la conosci è finita», così si apre il testo. Vi rievoca il momento in cui, all’improvviso, il marito si accascia per sempre su una poltrona. Descrive aspetti fisici ed emotivi di quello che è il mistero del lutto, riporta i risultati della ricerca medica e letteraria sul dolore, considerato non come una malattia ma, come scrive Freud, qualcosa «da superare in un certo periodo di tempo».

 

Dall’altra parte c’è Marie Colvin. Donna carismatica, ha vinto ostacoli spaventosi grazie ad una capacità di adattamento senza pari. Era pratica di guerra, ha saputo muoversi in Iran, Iraq, Libia, Egitto, Kosovo, Cecenia, Sierra Leone, Guantanamo e altri paesi, per rivelare la realtà in tutto il suo orrore. Nel 2012, da venticinque anni corrispondente estera del Sunday Times, la prova più difficile.

 

L’amico e collega Jon Swain descrive così le ore del suo ultimo mercoledì sulla terra a Homs, cittadina siriana sconvolta da due settimane di incessanti bombardamenti: «Marie aveva deciso di partire per la Siria ai primi del mese. L’insurrezione contro il regime del presidente Bashar Assad si stava facendo importante, e anche la repressione prendeva toni sempre più cruenti. Il governo siriano stava cercando di nascondere i suoi modi brutali tenendo a bada i giornalisti. Marie era convinta che occorresse andare a vedere per raccontare le cose come stavano».

 

In un messaggio alla collega egiziana Sara Hashash, Colvin confida di volersi rendere utile prima che fosse troppo tardi «Homs è circondata dall’esercito e dai carri armati, e i militari non fanno entrare né uscire nessuno. Ma forse ho trovato un modo per infilarmi lo stesso». A distanza di qualche giorno, sgattaiolava oltreconfine e si lasciava guidare dagli attivisti siriani per stradine dimesse e campagne, fino a Homs.

 

«Era tutto buio, rischioso, freddo, bagnato», racconta Swain. Quel giorno ha sfidato il fuoco dei cecchini per intervistare la gente del posto, asserragliata nelle case e negli scantinati, e per fare visita a un’infermeria improvvisata, dove si curavano i feriti. Si è imbattuta in scene atroci. «Ali, il dentista, era impegnato a tagliare gli abiti di Ahmed al-Irini, un paziente di ventiquattro anni, steso su uno dei due tavoli operatori», scrive Colvin: «Le schegge di granata gli avevano portato via intere porzioni di carne dalle cosce, lasciando crateri sanguinolenti. Ali gli ha estratto un pezzo di metallo da sotto l’occhio sinistro. Sanguinava anche lì. Poi le gambe di Irini sono state prese da uno spasimo e il paziente è morto sul tavolo operatorio. Suo cognato, che lo aveva portato dai medici, è scoppiato a piangere. “Stavamo giocando a carte quando un missile ha centrato casa nostra,” ha raccontato tra le lacrime. Irini è stato trasferito nell’obitorio improvvisato in quella che un tempo era stata una camera da letto sul retro, completamente nudo, un sacchetto di plastica nera a coprire i genitali».

 

Nell’ultimo collegamento con la Bbc, la giornalista descriveva lo scempio del quale era stata testimone. «Dicono di avere colpito soltanto i terroristi, ma è una menzogna clamorosa, una menzogna ignobile. L’esercito siriano sta bombardando una città piena di civili che muoiono di freddo e di fame, ecco come stanno le cose».

 

Poco dopo il collegamento, il 22 febbraio 2012, il centro stampa di Baba Amr, dove era rifugiata, è stato bombardato. Marie Colvin e Rémi Ochlik, fotografo francese ventinovenne al suo fianco, sono saltati in aria. Altri giornalisti, tra i quali Javier Espinosa di El Mundo, si sono salvati. Mentre fuggiva nel caos, senza volerlo, Espinosa ha calpestato i corpi delle vittime. «Per me è stata quella la cosa più orribile. Ho calpestato i loro cadaveri. Non sapevo che fossero loro».

 

Il mestiere della reporter di guerra è uno dei più scomodi per una donna: non solo si trova a farsi strada tra il testosterone di responsabili occidentali e contrabbandieri mediorientali, ma anche con la casualità del pericolo dell’efferatezza umana. Nel 2001 così Colvin raccontava il proprio lavoro: «Non si può scrivere di guerra e farlo come si deve senza esporsi a degli imprevisti (…). Andare sul posto di persona per vedere che cosa succede è l’unico modo per giungere alla verità. Con buona pace dei video che vi mostrano in televisione, la realtà sul terreno è cambiata molto poco nel corso degli ultimi cento anni. Crateri. Abitazioni carbonizzate. Donne che piangono una figlia o un figlio. Sofferenza. Quando si fa il mio mestiere non c’è il rischio di rimanere disoccupati».

 

Conclude poi: «La cosa davvero difficile è conservare una briciola di fiducia nel genere umano, scommettere sul fatto che a qualcuno importerà». Colvin e Didion hanno saputo testimoniare il dolore, rivelandone gli aspetti più trucidi e misteriosi, toccando con la penna il fondo dell’umanità.