Dopo Whatsapp anche l’azienda di Cupertino accusa il software spia della software house Nso. Ma a sua volta continua a usare le informazioni dei clienti. E la sicurezza dello Stato diventa oggetto di negoziazione fra istituzioni pubbliche e aziende private

«Dopo mesi di indagini, possiamo dire chi c’era dietro l’attacco informatico. Abbiamo presentato una denuncia alla Corte federale che spiega cosa è successo e attribuisce l’intrusione a una società tecnologica internazionale chiamata Nso Group». Il 29 ottobre 2019 Will Cathcart, a capo di WhatsApp, annuncia sul Washington Post l’intenzione di denunciare la Nso, azienda israeliana specializzata nella fornitura di software in grado di entrare nei sistemi operativi degli smartphone, ottenendo così il controllo di tutte le informazioni all’interno.

 

Lo spyware più noto è Pegasus, denunciato di recente da un consorzio di media per l’utilizzo che ne hanno fatto diversi Stati nelle loro attività di sorveglianza, specie nei confronti di attivisti e giornalisti. È importante - intanto - specificare un dettaglio: il software è prodotto in Israele ma è poi acquistato da vari Stati che ne decidono gli utilizzi. Alcuni giorni fa contro la Nso è arrivata anche Apple. L’azienda di Cupertino ha fatto causa alla società israeliana con motivazioni durissime, a cominciare dall’incipit del testo: «Gli accusati sono famigerati hacker, amorali mercenari del 21° secolo che hanno creato un apparato di sorveglianza informatica altamente sofisticato che porta a continui abusi. Progettano, sviluppano, vendono, consegnano, distribuiscono, gestiscono e mantengono offensivi e distruttivi malware e spyware che sono stati utilizzati per colpire, attaccare e danneggiare gli utenti e i prodotti Apple. Per il proprio guadagno commerciale, consentono ai loro clienti di abusare di tali prodotti e servizi per prendere di mira individui tra cui funzionari governativi, giornalisti, uomini d’affari, attivisti, accademici e persino cittadini statunitensi».

 

Siamo dunque di fronte a un nuovo scenario, con le piattaforme, alcune di esse quanto meno, a porsi come tutori della privacy dei cittadini, denunciando aziende che - chiamate in causa dagli Stati - invadono il campo dei diritti basilari di ogni persona. Non a caso Apple ha migliorato molto la sua attenzione per la privacy, ma rimane una delle aziende che raccolgono dati in continuazione e che provano a raccoglierli con qualunque mezzo. Prova ne è la recente multa da 20 milioni comminata dall’antitrust italiana a Apple e Google. Nel testo del provvedimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, le condotte oggetto del procedimento sono «le carenze informative in merito alla raccolta dei dati dell’utente a fini commerciali da parte di Apple, anche per l’utilizzo nell’ambito dell’AppStore e degli altri Store Apple attraverso la creazione dell’ID Apple (…) verrebbero acquisiti dati personali e di utilizzo dei servizi dell’utente per una loro utilizzazione a fini commerciali da parte della Società, senza portarne a conoscenza in maniera adeguata i consumatori stessi» e la «preimpostazione del consenso alla raccolta dei dati personali a fini commerciali da parte di Apple».

 

Un’azienda privata che fa parte del sistema più generale di sorveglianza sotto al quale siamo posti come cittadini, si erge quindi a garante di alcuni diritti fondamentali. Ottima l’intenzione, non fosse che - oltre ad apparire come un’azione di rebranding della propria immagine - finisce per porre interrogativi sulla relazione tra privati e Stato nella cultura del controllo nella quale siamo ormai inesorabilmente invischiati. Anzi, siamo addirittura oltre, come sottolineato da Andrea Monti (avvocato e professore di diritto dell’ordine e della sicurezza pubblica) su Wired: è la sicurezza dello Stato a diventare oggetto di negoziazione fra istituzioni pubbliche e aziende private. La reazione delle big tech nel caso Nso, ha scritto «cambia le regole del gioco e fa entrare in campo soggetti la cui agenda non necessariamente coincide con quella di cittadini e istituzioni». Come riportato dalla causa di Apple, a inizio novembre il dipartimento del commercio americano ha affermato di aver incluso Nso - così come altre tre società - nella cosiddetta “entity list” perché ha «ragionevoli motivi per ritenere, sulla base di fatti specifici e articolati, che l’entità sia stata coinvolta, o sia coinvolta, o ponga un rischio significativo di essere o di essere coinvolto in attività contrarie alla sicurezza nazionale o agli interessi di politica estera degli Stati Uniti».

 

In sostanza, significa che a Nso sarà vietato acquistare parti e componenti da società statunitensi senza una licenza speciale. Come riportato dal Guardian all’epoca dei fatti, «la mossa dell’amministrazione Biden rappresenta una vittoria per i ricercatori di Citizen Lab e Amnesty International, che hanno documentato molteplici casi di presunte violazioni dei diritti umani utilizzando spyware risalenti al 2016». Con questa mossa, il governo degli Stati Uniti ha riconosciuto ciò che Amnesty e altri attivisti affermano da anni: «Lo spyware di Nso Group è uno strumento di repressione che è stato utilizzato in tutto il mondo per violare i diritti umani», ha affermato Danna Ingleton, vicedirettore di Amnesty tech, secondo il quale «Questa decisione invia un messaggio forte al gruppo Nso che non può più trarre profitto dalle violazioni dei diritti umani senza ripercussioni».

 

Israele ha provato a metterci una pezza, diminuendo da 102 a 37 il numero dei paesi nei quali può operare Nso: mossa parziale, perché in realtà nella lista dei paesi che possono acquistare i prodotti Nso rimangono quelli che più ne avrebbero fatto uso, come emerso da numerose inchieste giornalistiche. Qualche settimana prima della tempesta, il boss di Nso era arrivato negli Stati Uniti: per mediare, trovare una soluzione, o quanto meno una tregua a denunce che sembrano non fermarsi mai. Appena atterrato in terra americana la prima doccia fredda, ovvero l’inserimento della sua azienda all’interno di una lista nera prodotta dall’amministrazione Biden. Poi la denuncia di Apple. Infine il blocco, seppur parziale, all’esportazione dei prodotti Nso decisa da Israele.