Il controllo da parte di Stati e big tech avviene accumulando dati che noi stessi concediamo. Una tendenza accelerata da guerra e pandemia. Parla David Lyon, uno dei massimi esperti di sorveglianza digitale

Il concetto di sorveglianza si è evoluto nel tempo, passando da un atto compiuto da un’autorità - ad esempio attraverso le telecamere per la strada - a uno strumento per ottenere altri risultati. Questo cambiamento è avvenuto principalmente a causa dello sviluppo tecnologico, dell’arrivo di sistemi di tracciamento molto più evoluti che hanno finito per comportare una responsabilità anche nostra, dei cittadini. La sorveglianza oggi è diffusa e si basa principalmente sui dati che vengono raccolti, ovunque e in ogni momento, in modo talvolta subdolo, sempre più spesso “volontario” da parte nostra.

 

La sorveglianza oggi è un processo di raccolta di dati di ogni persona, affinché con quei dati si possano produrre altri comportamenti: elettorali, su acquisti, gusti, o come reazione rispetto a una guerra ad esempio. E i sistemi basati sull’accumulo dei dati finiscono per essere convertiti in modo decisamente rapido per altre evenienze, come accaduto per la pandemia. È una delle tesi presenti nell’ultimo libro di David Lyon “Gli occhi del virus, pandemia e sorveglianza” (Luiss University Press, 2022, 16 euro). Lyon è un veterano nello studio dei sistemi di sorveglianza e ha modificato il suo sguardo a seconda di come sono cambiati i modi attraverso i quali le nostre vite sono finite al setaccio di aziende e Stati.

 

Ma nel libro precedente - “La cultura della sorveglianza” (Luiss University Press, 2020) - Lyon aveva già evidenziato come ormai non ci siano solo controllori istituzionali: noi stessi siamo ormai diventati, a nostra volta, controllori. La pandemia ha “esploso” questa prassi attraverso un evento “emergenziale” nel quale sono emerse tutte le caratteristiche dell’attuale mondo della sorveglianza. Un’emergenza che ha finito per planare anche su un’altra emergenza, come ad esempio la guerra in Ucraina. Il sistema di sorveglianza messo in piedi dallo Stato russo ha permesso una immediata repressione delle voci dissonanti rispetto all’“operazione speciale” voluta da Putin. Ma la guerra ha finito per creare anche altri cortocircuiti.

 

Aziende spregiudicate nella raccolta di dati come Clearview hanno provato a ripulire la propria immagine fornendo i propri servizi allo Stato ucraino. Clearview è una società di sorveglianza che «raccoglie tutte le foto che trova su Internet pubblico - come riportato dalla ong Privacy International - e le archivia nel suo database. Quindi vende l’accesso al suo database a vari clienti, in particolare alle forze dell’ordine, che possono eseguire ricerche nel database caricando foto di soggetti di interesse e trovare volti corrispondenti. Questa raccolta indiscriminata di foto e altre informazioni personali, all’insaputa o al consenso delle persone, minaccia i diritti e le libertà di tutti online e offline e l’uso del database di Clearview da parte delle autorità rappresenta una notevole espansione del regno della sorveglianza, con un potenziale reale di abuso».

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Nel sottobosco di queste “emergenze” lavora sempre in modo incessante la raccolta dei dati, il vero petrolio della nostra epoca. «A cambiare le cose rispetto al passato», dice all’Espresso David Lyon, «sono stati i social media e le app e principalmente lo smartphone come estensione dei nostri corpi». Nel libro Lyon sostiene che spesso si interpreta la sorveglianza come «la condizione di essere osservati da qualcuno», ma oggi l’osservazione «non è più principalmente letterale, si esercita soprattutto attraverso i dati» e il connettore principale tra persone e sorveglianti è lo smartphone che Lyon definisce “Personal Tracking Device”.

 

Le nostre reazioni ai fatti, come ad esempio una guerra, attraverso like, condivisioni di contenuti, commenti, sono immagazzinate e poi potenzialmente utilizzate anche per modificare la nostra percezione di quanto accade intorno a noi. Ogni evento, anche avverso, costituisce un’occasione per raccogliere dati. Nel suo ultimo libro David Lyon ricorda il tentativo di Alphabet, cioè Google, di creare un’utopia tech, una smart city a Toronto. Progetto poi rifiutato da residenti e istituzioni e infine abbandonato. Ma rimane un sintomo, secondo Lyon, del costante tentativo da parte delle corporations (e degli Stati) di mettere mano ai nostri dati. E quando capita una pandemia i dati sanitari di milioni di persone sono un bottino ambito.

 

Da questo contesto, durante l’epidemia di Covid, è nata una sorta di ideologia, quella del “tecno-soluzionismo”, ovvero credere che la tecnologia possa essere una risposta a tutto anche quando le soluzioni non sembrano funzionare, per niente. L’esempio degli esempi, secondo Lyon, è il contact tracing, diventato, o meglio “venduto”, come “la soluzione”. «La parola fuorviante “soluzione” – spiega Lyon - iniziò a essere usata nella pubblicità verso gli anni ’90 e si basava sulla presunzione che un’azienda potesse risolvere qualsiasi problema. La malattia del “soluzionismo” ha poi preso definitivamente piede dopo l’11 settembre, quando il “problema” è stato definito come terrorismo e scoprire terroristi e complotti terroristici era diventata la priorità. Telecamere di sorveglianza, biometria, sistemi di rilevamento di ogni tipo sono diventati popolari tra le agenzie di “sicurezza” e sono state numerose le iniziative per indebolire le “minacce terroristiche” basate sull’ottenimento e l’analisi dei dati. E dato che in molti paesi la pandemia è stata definita tanto un problema di “sicurezza” quanto un problema di “salute pubblica”, sono stati adottati gli stessi tipi di approcci “soluzionisti”. Ma spesso mancavano di un’analisi attenta del problema, venivano testati in modo inadeguato e, ovviamente, dipendevano ancora una volta dall’adozione e dal loro utilizzo da parte delle persone. La stessa Organizzazione mondiale della sanità ha visto il tracciamento dei contatti come un dispositivo possibilmente utile, ma ha messo in guardia contro l’eccessivo affidamento su di essi, in parte per questo motivo».

 

In un modo o nell’altro, nei paesi democratici come in quelli autoritari, il sistema di tracciamento ha mostrato limiti e in molti casi non ha funzionato per niente. E in diverse occasioni ha dimostrato di poter essere un ulteriore sistema di controllo. In alcuni paesi i dati sanitari sono finiti alle polizie locali; in altri paesi autoritari, come la Cina, il sistema di tracciamento (a sua volta adattato sul sistema di sorveglianza già preesistente) è diventato in poco tempo uno strumento nelle mani dello Stato per gestire l’ordine pubblico. Alla base di tutto, come sostiene Lyon, c’è la raccolta dei dati, come se fosse un’attività ingorda e costante a prescindere dall’esito immediato di tale raccolta. I dati vengono raccolti, ogni occasione è buona e poi si vedrà: a qualcosa prima o poi serviranno.

 

Sui Big Data Lyon spiega che la problematica principale riguarda «gli attuali accordi di dipendenza del governo dalle piattaforme e l’ossessione delle piattaforme o di ottenere contratti governativi o di assumere effettivamente funzioni governative, attraverso le smart city, ad esempio». La gestione dei dati, poi, «è diventata essenziale per ogni sfera della vita in molti paesi e quindi la politica dei dati è diventata una delle aree più importanti per il dibattito politico. Uno dei motivi principali per cui ciò è problematico è che le disposizioni attuali tendono alla riproduzione e all’esacerbazione delle disuguaglianze già esistenti nella popolazione di qualsiasi paese».

 

È una questione che ormai non riguarda più solo il concetto di privacy: «La sorveglianza produce effetti non solo individuali, ma anche profondamente sociali. La sorveglianza ci rende visibili ad altri sconosciuti in modi che non hanno precedenti, e attraverso l’analisi dei dati da parte degli algoritmi ci rappresenta anche in modi particolari, e da questo dipende anche il modo in cui veniamo trattati da aziende o istituzioni. Questa è una questione sociale e politica, motivo per cui, sebbene la privacy sia importante, dobbiamo andare oltre la privacy per cercare di ottenere più diritti nella gestione dei dati. Credo che abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale digitale, appropriato per i tempi in cui viviamo, e arrivare ad accordi veri e consapevoli su come vengono utilizzati i dati, dove e quando. Cosa è lecito nel mondo e cosa dovrebbe essere bandito? Qualcosa del genere potrebbe essere davvero molto utile quando affronteremo la prossima pandemia globale».

 

Già ma cosa fare nel frattempo? Secondo Lyon, «siamo in un momento di opportunità poiché la pandemia è diventata meno grave e stiamo imparando a conviverci. Molti hanno parlato in termini “apocalittici” della pandemia, sottolineandone gli effetti disastrosi. Ma “apocalisse” nella sua origine greca non riguarda solo una catastrofe ma anche la possibilità di svelare, di mettere a nudo. E la pandemia ha messo a nudo, sì, ha rivelato ancora di più: il rapido tasso di crescita di nuove forme di sorveglianza. E questo ha fatto sì che la sorveglianza sia diventata una questione pubblica importante che richiede attenzione ai nuovi danni che essa comporta. E poiché siamo tutti coinvolti nell’uso delle tecnologie, dovremmo essere tutti coinvolti, politicamente, nel superare i problemi causati da Big Data, AI, Machine Learning eccetera. Questo compito non può e non deve essere lasciato solo alla politica».