A due anni dalla rivoluzione, il Paese va alle urne il 10 ottobre sotto la minaccia delle milizie sciite filoiraniane. Seicento morti nei cortei degli attivisti che si battono per il cambiamento

Le tende colorate e accoglienti della rivoluzione Tishreen, la rivoluzione dell’ottobre 2019 in Iraq, sono state sostituite dalle poche tende monocrome delle forze dell’ordine. Si alternano, quest’ultime, in piazza Tahrir, per presidiarla ventiquattr’ore ore su ventiquattro e mantenere quella che chiamano sicurezza. Ma per i ragazzi che quella piazza l’hanno abitata, con tutte le loro energie e speranze, non è così sicuro farsi notare nei pressi di Tahrir oggi. Lì hanno sparato ai loro compagni, i martiri della rivoluzione. «Se posso, preferisco evitarla, un po’ per paura, un po’ per nostalgia», afferma un giovane attivista che chiede di rimanere anonimo a causa delle minacce subite da parte di alcuni membri delle milizie sciite filoiraniane, responsabili di diversi omicidi e rapimenti nel Paese. Attorno alla piazza scorre il normale traffico, domina il giallo dei taxi e si intravedono i graffiti della rivoluzione che avevano trasformato il tunnel in una galleria d’arte. 

 

Sono passati due anni da quel momento storico eccezionale. In quella piazza centrale di Baghdad, così come nelle piazze delle maggiori città del Paese, soprattutto nel sud (Babel, Basra, Hella, Nassiriya, Karbala, per citare le principali), i giovani iracheni hanno osato desiderare un cambiamento del sistema politico settario, corrotto, e spesso criminale. Quello che impedisce loro di vivere e lavorare dignitosamente nel proprio Paese. E il motivo per cui lo slogan principale di piazza è stato “nuridu watan”, ovvero “vogliamo una patria”. Una patria ancora tutta da costruire, costata la vita ad almeno 600 persone solo nelle manifestazioni, con migliaia di feriti e un numero di dispersi e omicidi mirati altrettanto importante, l’ultimo dei quali a fine luglio. 

 

In questo quadro desolante, il 10 ottobre si terranno anticipatamente le elezioni legislative, così come era stato chiesto proprio dai manifestanti, anche se lo scenario pre-elettorale non presenta segni del cambiamento tanto auspicato. «Stessi partiti, facce diverse. Come possiamo supportare queste elezioni?», si chiede Yahya Kareem, attivista della società civile e parte dell’organizzazione “Sport contro la violenza”, che ogni anno organizza una maratona sulla via Abu Nawas che costeggia il fiume Tigri a Baghdad per ribadire un forte messaggio di pace. «Anche se cambiano le persone, quando entreranno a far parte del sistema saranno manipolate, il sistema stesso le cambierà. Anche con le migliori intenzioni, saranno obbligate a comportarsi come il sistema prevede. Ci sono dei partiti creati dopo la rivoluzione di ottobre che parteciperanno, ci sono delle potenzialità, ma non è sufficiente». E aggiunge la sua amica Tabarek, in un dibattito tra rivoluzionari sul boicottare o meno le elezioni di ottobre: «Anche se i partiti della rivoluzione raggiungessero una buona percentuale, sarà minima e non permetterà loro di agire». 

Sono oltre 3.200 i candidati che si contenderanno i 329 posti in Parlamento, quindi per ogni posto competono circa 10-15 candidati. Alle ultime elezioni politiche, nel 2018, la partecipazione al voto è stata molto limitata, attorno al 44 per cento, la più bassa dal 2003. La pressione delle proteste ha portato piccoli cambiamenti, per esempio far approvare una nuova legge elettorale a dicembre dello scorso anno che prevede che si potranno votare i candidati singolarmente. E non sarà dunque la lista a racimolare tutti i voti, portando in Parlamento anche candidati con poche preferenze, grazie ai loro potenti leader di partito. Il nuovo sistema elettorale inoltre, che divide l’Iraq in 83 distretti al posto dei 18 del passato, permetterà agli iracheni di votare solo nel proprio distretto residenziale. Il governo ha introdotto delle misure legali per prevenire la frode, per un trasferimento rigoroso e sicuro dei risultati e con schede elettorali biometriche. Per la prima volta, anche una missione dell’Unione europea, guidata dall’europarlamentare tedesca Viola von Cramon, sta già monitorando da fine agosto la campagna e il processo elettorale con 80 osservatori sul campo. 

 

Ma tutto questo non è servito a rassicurare Yahya, la cui sfiducia è condivisa da compagni e compagne. «Questo governo, le milizie da loro protette e tutto il sistema politico sono responsabili della morte di centinaia di persone», dice Hussam Sobhi, attivista che ha vissuto per settimane a Tahrir a fine 2019. «Abbiamo organizzato a maggio la campagna “man qatalni”, “chi mi ha ucciso?”, per chiedere al governo di indagare sugli omicidi mirati. Non solo non abbiamo risposte, ma durante la manifestazione sono stati uccise due persone e ferite delle altre!»

 

La lista delle persone rapite, scomparse e uccise è lunga. Uno dei maggiori attivisti della rivoluzione irachena di Karbala, Ehab al-Wazni, è stato assassinato a maggio. Ali Karim, il figlio di una riconosciuta attivista per i diritti delle donne, Fatima al-Bahadly, è stato rapito e ucciso il 23 luglio. L’anno prima le avevano ucciso un altro figlio. Reham Yacoub, medico nutrizionista e attivista per i diritti umani di 29 anni, è stata assassinata il 19 agosto 2020, mentre il famoso politico analista Hisham al-Hashimi, conosciuto e stimato a livello internazionale per la sua expertise unica sul terrorismo in Iraq, il mese prima, il 6 luglio, davanti casa. 

Ed è per questo che, oltre che a piazza Tahrir, anche negli affollati caffè culturali di Baghdad gli attivisti non si sentono più sicuri. È ancora Yahya a raccontarlo. «Quando una volta mi sono seduto in un caffè appena aperto di fronte allo storico café Ridha Alwan, ho riconosciuto un leader noto di una milizia sciita pro-Iran che osservava i movimenti di fronte. Ero scioccato solo a vederlo accanto a me», ricorda, camminando per la stessa via di Kerrada. «Poi un imponente Suv bianco è passato a prenderlo. Ho avuto i brividi. Poteva essere la stessa macchina da cui sono scesi e hanno sparato a Hisham al-Hashimi o quella che ha rapito Hella Mawis mentre andava in bicicletta», aggiunge, riferendosi alla curatrice d’arte tedesca molto vicina ai giovani artisti e attivisti della capitale, rapita nel luglio 2020 per cinque giorni e poi ritrovata e liberata dalle forze di sicurezza irachene. 

 

L’Iraq si appresta dunque al voto, in una situazione sempre particolarmente fragile in Medio Oriente. La recente presa di potere dei talebani in Afghanistan ha destato qualche paura anche in Iraq, dove l’Isis sconfitto militarmente nel 2017 è ancora attivo con cellule che organizzano attentati sia contro civili sia contro militari e dove il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha annunciato il ritiro totale delle sue truppe entro fine anno. Nel frattempo, diversi attacchi con i droni contro le basi militari americane, il più recente nella notte dell’11 settembre all’aeroporto internazionale di Erbil, sono il segnale delle milizie sciite filoiraniane di voler combattere la presenza americana fino alla fine. La coalizione destinata ad avere una maggioranza in Parlamento è quella del clerico sciita Muqtada al-Sadr, divenuto celebre per la sua opposizione militante armata contro l’invasione americana dopo il 2003. Tolta la veste del clerico anti-sistema, è stato già vincitore dell’elezione del 2018 e con posizioni ambigue nei confronti della rivoluzione, ha mantenuto un supporto popolare di base, che solo di recente ha temuto essere scosso. 

 

Degli oltre 3.200 candidati, 951 sono donne appartenenti a diversi spettri del panorama politico tradizionale e di quello più recente e già frammentato nato dalle proteste. A loro spetta il 25 per cento dei seggi parlamentari, dopo che nel 2018 avevano affrontato una campagna elettorale fatta di insulti sessisti e minacce soprattutto via social. I cartelloni per strada di alcune di loro erano stati stracciati, ma non si sono arrese. 

Le forze di opposizione che si riconoscono nel percorso iniziato con la rivoluzione Tishreen si sono riunite per annunciare che nella settimana delle elezioni chiameranno in strada una nuova manifestazione di massa. E c’è così chi non perde le speranze e sa che una nuova, grande partecipazione politica dei giovanissimi ha cominciato a farsi avanti. I ragazzi seguono le notizie e si rendono conto di come le scelte politiche hanno una conseguenza diretta sulle loro vite. «Anche se la rivoluzione non ha portato ai risultati a cui ambivamo, le persone che partecipavano erano la speranza stessa», dice Abderahman, 25 anni, per rispondere allo scetticismo e alla disillusione dei compagni. «Non eravamo in piazza per qualche partito politico, ma per l’Iraq. C’è un’anima forte nei membri di questa comunità. E se l’abbiamo fatta una volta la rivoluzione, vuol dire che la possiamo fare ancora». A qualsiasi prezzo.