Trump silenziato dalla piattaforma di Zuckerberg e Twitter, miliardi di utenti sottoposti ai nuovi regolamenti anti-privacy di Whatsapp: sono le due facce oscure dei social. «Ma dire che la legislazione non è in grado di rincorrere la tecnologia è una panzana. Perché non deve rincorrerla, ma direzionarne lo sviluppo». Parla il filosofo Luciano Floridi

Mark Zuckerberg
Ci pensa Facebook, ci pensa Twitter, a perimetrare il mondo della liberaldemocrazia, togliendo la parola a chi la minaccia, foss’anche il “commander in chief” della più grande potenza del mondo. La cacciata di Donald Trump dalle due piattaforme social è stata accolta con favore, con sollievo, da una larga parte dei leader politici democratici e dell’opinione pubblica. Come se all’improvviso la museruola digitale avesse riavvolto il tempo, mostrando la faccia che le compagnie big tech mostravano ai tempi in cui il motto di Google sembrava il vangelo della Silicon Valley: “Don’t be evil”, non fare il male. Ma la questione è un po’ più complessa.

«Sì lo è, il problema ha due dimensioni connesse e la confusione è generale da chi ne considera solo una», osserva Luciano Floridi, filosofo della Rete dell’Università di Oxford (dove dirige il Digital ethics lab), «Hanno fatto bene a bloccare la comunicazione su Facebook e su Twitter?».

Secondo lei, professore?
«Sì, avrebbero dovuto farlo molto prima».

Allora va tutto bene?
«No, niente affatto. Serve una regolamentazione di queste aziende. E sta arrivando, basta leggere l’articolo 20 dei Digital services act: “Le piattaforme digitali devono sospendere, per un periodo ragionevole e dopo aver emesso un avvertimento preventivo, la fornitura dei propri servizi ai destinatari degli stessi servizi che producono frequentemente contenuti manifestamente illegali”».

Eppure anche molte voci liberali, certamente non sospettabili di simpatie trumpiane, hanno parlato di censura, criticando apertamente le decisioni di Facebook e Twitter.
«Non si tratta di censura, ma di una buona ecologia dell’infosfera».

Ma la buona ecologia dell’infosfera ha ancora molta strada da percorrere secondo Luciano Floridi. Con i Trump e con l’utente X. Quasi in contemporanea con il “ban” a Trump sono spuntate le nuove “condizioni” di WhatsApp. La parola chiave è “accetto”. Quella su cui scorrono ogni giorno milioni di “touch” su altrettanti smartphone. Il più delle volte in una frazione di secondo, senza pensarci, confinando il “che cosa” accetto nella discarica del risaputo o ignorato, per distrazione, assuefazione o rassegnazione: si chiami sorveglianza, data mining, o intrusione in una privacy emigrata da tempo nel cloud in compagnia di miliardi di altre.

Eppure, quando il 7 gennaio la parola “accetto” si è ripresentata sotto un breve testo aprendo l’applicazione di WhatsApp, non pochi hanno reagito stizziti: «Questo è troppo».
Luciano Floridi

Si tratta, come è noto, dell’aggiornamento dei “propri termini e l’informazione sulla privacy” che la piattaforma di messaggistica istantanea (costola di Facebook) ha introdotto con decorrenza dall’8 febbraio e che consiste – in sintesi – nella possibilità di condividere con Facebook tutte le informazioni che viaggiano su WhatsApp. Con una differenza cruciale rispetto alle condizioni precedenti: che la condivisione da facoltativa diventerà obbligatoria per l’utente, pena l’”espulsione” da WhatsApp.

È davvero troppo? Siamo in presenza di un salto di qualità nelle procedure estrattive compiute da big-tech nell’infinita miniera della nostra soggettività? O non si tratta piuttosto (e “soltanto”) di un ulteriore passo nella composizione di un mosaico di cui abbiamo accettato da tempo di essere un tassello?

Trump silenziato e miliardi di utenti minacciati quasi contemporaneamente dello stesso destino (almeno su Whatsapp) se non accettano una nuova intrusione nella loro privacy. Le due facce delle piattaforme: buona e cattiva, vagamente ricattatoria. Eppure, professor Floridi, nel 2014, dopo l’acquisizione di WhatsApp da parte di Menlo Park, era stato assicurato che la piattaforma avrebbe continuato «a operare in modo indipendente»...
«Esattamente. E ricorda che a suo tempo, nel 2017, ci fu anche una bella multa della commissione europea? 110 milioni di euro sul take over di WhatsApp. Voglio dire che è da tanto tempo che questo spostamento tettonico Facebook-WhatsApp si sta muovendo nella direzione sbagliata. C’è stata un promessa non mantenuta, ma che nel business e nel mondo della legalità ci si basi sulle promesse e sulle buone intenzioni, questo è ancora più sorprendente...».

Certo, soprattutto se si tratta di società la cui ragion d’essere, il modello di business, è l’estrazione di dati. Soshana Zuboff ha scritto che pretendere il rispetto della privacy da parte dei capitalisti della sorveglianza è come chiedere a Henry Ford di assemblare a mano ogni singola ModelT o a una giraffa di accorciarsi il collo.
«Non è proprio così. Il fatto riguarda semplicemente il modello di business che c’e dietro, non il capitalismo in generale. Non vedo l’incompatibilità di questi servizi con la privacy. Il business model attuale è costruito per essere “gratuito” e farci pagare con i dati. Questo è il meccanismo che non funziona, ma non ha nulla a che fare con il capitalismo della sorveglianza. Allora il vero problema è che se noi non vogliamo pagare questi servizi in cash ma solo in natura, cioè in dati, poi questi dati vengono usati. Quando tanto tempo fa Zuckerberg disse “io non farò mai una versione a pagamento di Facebook”, quelle parole erano preoccupanti, allarmanti...».

E forse lo erano anche quelle di Tom Simonite, allora capo del Data science team di Facebook, che in un articolo sulla Mit technology review del 2012 scrisse: “Per la prima volta ci sono abbastanza dati di qualità sulle comunicazioni delle persone... Per la prima volta abbiamo un microscopio che ci consente di esaminare il comportamento sociale a un livello di dettaglio senza precedenti”. Che effetti ha questo “microscopio”, questo via libera totale all’attività estrattiva, sulle dinamiche psicologiche e sociali?
«Ha ragione nel dire che le cose stanno così, ma bisogna fare anche i successivi passi di distinzione. E innegabile che oggi la rivoluzione digitale è anche la rivoluzione dei dati personali. Questo è un fatto da molti anni, ma di questo fatto che interpretazione diamo? Il business che abbiano oggi, quello dello sfruttamento dei dati e i suoi effetti anche sulle dinamiche a cui faceva cenno, è l’unico che possiamo avere? No, non necessariamente. Pensi per esempio a un business misto, quello di Netflix, che ti fa pagare e in più raccoglie i tuoi dati. Non ti vende pubblicità, o almeno non in modo palese. E i tuoi dati vengono utilizzati per offrirti un servizio migliore. Non sto presentando Netflix come un modello ideale, ma è già un modello di business diverso da quello di Facebook, dove tu non paghi nulla ma la tua identità è completamente svelata... E adesso attraverso la condivisione con WhatsApp si può solo immaginare... Ma ci sono dei modelli di business, e anche legislativi, che si potrebbero studiare per capire come non andare in quella direzione. E certamente è fattibile».

Nonostante la grande asimmetria di conoscenza e potere tra le piattaforme e gli utenti?
«Tra utenti e piattaforme c’è l’Europa, ci sono gli Stati, c’è il legislatore».

Ma anche tra il legislatore e le piattaforme può esserci questa asimmetria...
«Il potere sta tutto nelle mani del legislatore. L’ultimo potere, quello finale, checché se ne dica. Faccia un paragone con quello è successo con il nucleare. In Italia con una legge abbiamo smesso di fare il nucleare: bum, da un giorno all’altro. Eppure non è che non ci fossero interessi, potenze in campo. Allora io non vorrei che tendessimo a esagerare il potere di Facebook e gli altri. Questi colossi sono molto potenti ma anche enormemente fragili. La fragilità sta nel fatto che vivono di un business che è altamente riproducibile. Non è che Facebook ha trovato la formula magica che li rende primi e non raggiungibili...».

Insomma non solo gli utenti, ma anche e soprattutto le istituzioni, la politica, dovrebbero almeno esitare prima di dire “accetto”, ponendo a loro volta condizioni, fino a costringere le compagnie a rivedere il modello di business...
«Insisto che dobbiamo distinguere tra il pasticcio che vediamo, e quello che si potrebbe fare e non stiamo facendo. C’è una responsabilità enorme dal punto di vista della società, della politica e del legislatore nel non fare altrimenti. Se uno mi dice “sta andando così, sta andando sempre peggio”, io gli dico dico sì hai ragione, con quest’ultima integrazione WhatsApp-Facebook, buonanotte alla privacy, anche a quel grammo che era rimasto. Non c’è niente da fare? È troppo comodo pensarlo, ma non è vero».

Si tratta di capire chi e come può invertire la rotta, posto che non saranno le compagnie big tech a farlo.
«Ci sono due forze che non funzionano e due che potrebbero funzionare. Le due forze che non funzionano sono l’autoregolamentazione e la competizione. Sono armi spuntate, lo dico avendo conosciuto dall’interno Google e Facebook. L’autoregolamentazione non funziona perché è “troppo poco e troppo tardi”. Quanto alla competizione lo vediamo benissimo: è un farsi la guerra, ma non un competere per migliorare il servizio a noi che ce ne serviamo. Per rimettere la competizione in campo bisogna riformare l’antitrust. Se venisse riformato seriamente allora vedremmo che Facebook e WhatsApp non potrebbero stare insieme. Le altre due forze sono quelle della regolamentazione dal punto di vista legislativo in termini di standard (che dovrebbero essere fondati su una legislazione europea) e la public opinion. Oggi l’opinione pubblica piano piano comincia a essere meno supina».

Non le viene il sospetto, invece, che in fondo abbiamo così ben metabolizzato i costi e i benefici del “game” digitale che alla fine non ce ne importa quasi nulla della nostra privacy?
«Ce ne importa quando cominciano a toccarci più da vicino. Ma, in generale, sulla consapevolezza sono d’accordo con lei: non è che parliamo di milioni di persone che stanno tutto il giorno a studiare come tutelare la propria privacy, ma forse lo stesso successo del libro della Zuboff sulla sorveglianza indica che qualcosa sta cambiando. Tuttavia, la forza che non stiamo utilizzando abbastanza è quella della legge. Anche a Bruxelles sento dire che la legislazione non è in grado di rincorrere la tecnologia. Sono tutte panzane. Non deve rincorrere ma direzionare lo sviluppo della tecnologia. Non ti deve dire quanto veloce puoi andare, ma dove devi andare, che è tutta un’altra storia. Se il legislatore dicesse che da domani la pubblicità online non è più legale... Sarebbe la fine, chiuderebbero tutti. Non voglio dire che questo sia auspicabile, è una sciocchezza. Però ci fa capire come dall’oggi al domani il legislatore potrebbe fare piazza pulita. L’alternativa non è tra “si può fare o no”, ma come si può fare bene. La strada giusta è guardare a questi business model che mi sembrano pessimi. E cambiarli, con la legge».