Trump e Kim hanno firmato una dichiarazione di intenti sulla questione nucleare e sul miglioramento delle relazioni tra i due Paesi. Ivan Ingravallo, professore di diritto internazionale all'Università di Bari "Aldo Moro", spiega cosa contiene il documento e perché sarebbe meglio frenare i facili entusiasmi

L'incontro tra Donald Trump e Kim Jong-un ha portato alla firma di un «documento storico», almeno stando a sentire le parole dei due leader. L'incontro avvenuto all'hotel Capella sull'isola di Sentosa, a Singapore, è il primo tra i capi di Stato americano e nordcoreano. Un successo diplomatico che lascia però aperti tanti interrogativi, molti dei quali ruotano attorno alla questione del nucleare di Pyongyang. Abbiamo chiesto al professor Ivan Ingravallo, docente di diritto internazionale all'Università di Bari “Aldo Moro”, di fare il punto della situazione dopo il summit del 12 giugno.

Che tipo di documento hanno firmato Trump e Kim e come giudica questo primo incontro tra i leader dei due Paesi?
«I presidenti di Stati Uniti e Corea del Nord hanno siglato una semplice dichiarazione di intenti, simbolica e poco sostanziosa nei contenuti. Va sottolineato che non c'è nulla di vincolante, tutto quello che è stato scritto nel testo può essere ribaltato nel giro di poco tempo. La dichiarazione segnala una volontà, una direzione da prendere, ma non ci sono elementi concreti e lo si capisce nel passaggio in cui viene scritto che i negoziati veri e propri saranno portati avanti in futuro dal segretario di Stato americano Mike Pompeo e da alti funzionari nordcoreani».

Andiamo a vedere questi contenuti. I primi due punti parlano di «sforzi comuni» e «impegni» per favorire la pace e la prosperità dei due Paesi. Come vanno interpretati?
«È semplice retorica, tipica dei documenti di questo genere. Non c'è niente di effettivo che spieghi come proseguiranno le relazioni tra Stati Uniti e Corea del Nord nei prossimi mesi. Proprio per questo sarei molto cauto a dire che ci troviamo di fronte a una svolta storica».

Si parla anche di restituzione dei resti dei soldati americani morti in Corea durante la guerra del 1950-1953, oltre di quei cittadini statunitensi incarcerati da Kim con l'accusa di essere delle spie.
«È un primo segnale di distensione. Però diciamoci la verità, si tratta pur sempre di questioni marginali: i cittadini americani agli arresti nel Paese asiatico sono pochissimi, alcuni di loro sono stati già rilasciati nei mesi scorsi. Resta comunque il cambio di rotta del regime di Kim, che negli ultimi tempi sta cercando il dialogo invece dello scontro frontale».

Arriviamo alla questione del nucleare in Corea del Nord, con Kim che nella dichiarazione si impegna a favorire la denuclearizzazione della penisola. Non è un passo in avanti notevole?
«Sicuramente, a distanza di poco tempo si è passati dai test missilistici a un incontro tra i due leader. Come vada intesa questa volontà nordcoreana è però ancora tutto da capire. La denuclearizzazione avverrà in modo unilaterale oppure potranno intervenire le organizzazioni internazionali preposte, come l'Aiea (l'Agenzia internazionale per l'energia atomica)? C'è una bella differenza, perché nel primo caso sarebbe difficile valutare se le promesse di Kim sono reali o rappresentano solo una mossa strategica. Dobbiamo poi pensare che un processo di questo tipo dura molti anni, va seguito passo passo e ci possono essere degli ostacoli notevoli. Spetterà alle diplomazie dei due Paesi tracciare un percorso che porti a dei risultati tangibili».

Trump sta utilizzando approcci completamente diversi nei confronti di Iran e Corea del Nord. Perché due atteggiamenti così differenti sullo stesso tema?
«È strano “bastonare” Teheran, che ha firmato un accordo vincolante sul nucleare con le maggiori potenze mondiali e l'Unione europea, e contemporaneamente dialogare con un Paese che fino a ieri minacciava l'apocalisse atomica. Ma Trump usa un doppio standard che è dettato solamente dalle contingenze di politica internazionale: ha visto uno spiraglio con Kim e sta provando a sfruttarlo a suo vantaggio».

Quale ruolo sta svolgendo la Cina nel riavvicinamento dei due acerrimi “nemici”?
«
Pechino era e resta il più grande alleato di Pyongyang e tante volte le sanzioni imposte dal Consiglio di sicurezza dell'Onu alla Corea del Nord sono state aggirate dai cinesi con aiuti economici di vario genere. È difficile, quindi, dire a che gioco stiano giocando. Di sicuro Trump sta tentando di togliere spazio di manovra al presidente Xi, ma resta da vedere se lo fa per alimentare il dualismo tra Cina e Usa o se invece è veramente interessato a collaborare sui fronti di crisi internazionale».

Ha citato le Nazioni Unite, praticamente scomparse a livello di dibattito mondiale dopo la vittoria negli Stati Uniti di Trump. Perché non riescono più a far valere il proprio peso in accordi come quello odierno?
«L'Onu è uno strumento nelle mani degli Stati che ne fanno parte: se questi non lo usano più la colpa non è tanto delle Nazioni Unite ma dei Paesi membri che hanno deciso di investire, legittimamente sul piano giuridico, in altri tipi di relazioni. Di certo l'Onu è il grande sconfitto nel riavvicinamento tra Trump e Kim, perché non ha avuto alcun ruolo, dopo dieci anni in cui ha imposto sanzioni sempre più dure a Pyongyang. Il presidente americano non ama l'approccio multilaterale tipico delle organizzazioni internazionali, preferisce quello bilaterale, perché più diretto e immediato. Attenzione, però, perché capire come ragiona Trump è difficile, ci vorrebbe la sfera di cristallo per interpretare le sue prossime mosse».