Il parlamento di Madrid ha sfiduciato il primo ministro e leader del Partito popolare, la cui carriera è stata segnata dal "caso Gürtel" e dal referendum sull'indipendenza della Catalogna. A guidare il nuovo governo di minoranza sarà il socialista Pedro Sánchez

Abbiamo appena archiviato 88 giorni di incertezza sul nuovo governo italiano ed ecco spuntare fuori una nuova crisi nell'Europa occidentale. In Spagna si è conclusa l'esperienza di governo di Mariano Rajoy, leader del Partito popolare. Il premier iberico è stato sfiduciato dal parlamento: 180 voti a favore della mozione presentata dal Partito socialista di Pedro Sánchez, 169 i contrari, un solo astenuto.

La Costituzione spagnola prevede la “sfiducia costruttiva”, ossia chi avanza la mozione di censura nei confronti del governo in carica deve assumersi la responsabilità di trovare una maggioranza in parlamento per formare un nuovo esecutivo. Sánchez, per il momento, è riuscito nel primo intento: ha ricevuto i sì del proprio partito, di Podemos, dei nazionalisti baschi, catalani e valenziani. Solo i popolari e Ciudadanos si sono opposti. Quello che si formerà sarà un governo di minoranza, con i socialisti che dovranno decidere se portare il Paese alle urne da soli o cercando l'appoggio della sinistra radicale di Podemos, guidata da Pablo Iglesias.
 
La crisi politica si intreccia con quella di sistema, causata dal “caso Gürtel”, uno dei più grandi scandali di corruzione della storia recente spagnola, un giro di tangenti e fondi neri che ha coinvolto personaggi di punta del Partito popolare. E Rajoy, costretto a testimoniare in giudizio, ne è rimasto travolto.

Il presidente dei popolari vede così chiudersi la sua esperienza di governo: noto gaffeur, ha fatto del silenzio e della “fuga” una tattica politica. Quando c'era qualche problema, meglio andare a trovare un capo di Stato straniero e riordinare le idee in vista del rientro. Un uomo medio che è piaciuto soprattutto alla Spagna rurale, un politico senza il carisma del leader ma capace, nel 2016, di dire di no alla proposta di grande coalizione dei socialisti che gli avrebbe fatto perdere consensi e la guida del governo.

Questa volta, però, si è dovuto arrendere: «E' stato un onore essere presidente del governo e lasciare una Spagna migliore di quella che ho trovato. Mi auguro che il mio successore potrà dire lo stesso quando toccherà a lui», ha dichiarato in parlamento pochi minuti prima del voto di sfiducia. Ma prima di andarsene ha lanciato una frecciata al Partito socialista: «Con quale autorità morale state parlando? Chi siete, Madre Teresa di Calcutta?» ha chiesto in modo retorico, facendo riferimento ai problemi interni al Psoe.

La macchia più grande dell'era Rajoy resterà la gestione della crisi catalana: prima sottovalutata, poi affrontata di petto quando la situazione era ormai prossima a degenerare. L'intervento della Guardia Civil nei seggi di Barcellona il giorno del referendum, benché ineccepibile sul piano costituzionale, ha dato l'impressione di una prova di forza evitabile. E se a Madrid il Rajoy difensore dell'unità della Patria è piaciuto, nei Paesi Baschi l'atteggiamento tenuto sulla questione dell'indipendentismo catalano non è stato certo applaudito. Il premier contava sui cinque seggi del Partito nazionalista basco (Pnv) per cercare di mantenere in piedi il governo, ma i fondi stanziati nel 2018 per l'Euskadi non sono bastati. Sánchez ha promesso nuovi investimenti e i membri del Pnv hanno colto l'occasione per dare uno schiaffo morale al “señor de Pontevedra”. Nella storia spagnola post-Franco sono state solo quattro le mozioni di sfiducia presentate, quella contro Rajoy è la prima a passare. Un piccolo primato di cui l'ormai ex inquilino della Moncloa non potrà essere orgoglioso.