I due Paesi europei insegnano che, quando incombe il pericolo della destra, le forze democratiche fanno fronte comune e vincono. Ma servono programmi per i ceti popolari. Il problema, in Italia, sono le norme che regolano il voto: un pasticcio inventato dal Pd renziano

«O Franza o Spagna, purché se magna». Pur di salvare il sistema delle Signorie italiane, e soprattutto quella della sua Firenze, Francesco Guicciardini era disposto a compromessi con chiunque. Oggi il motto viene di solito usato per i tanti voltagabbana che popolano la politica. Però, se fosse ancora vivo, il fine politico che visse tra il ’400 e il ’500 forse avrebbe utilizzato le sue parole in altre versioni, come per esempio «Francia o Spagna, qualcosa insegna». Soprattutto alla sinistra.

Dalla Francia si potrebbe imparare che quando incombe il pericolo della destra, là impersonificato da Marine Le Pen, le forze democratiche e antifasciste fanno fronte comune e di solito riescono a vincere, magari accontentandosi del meno peggio ma comunque non lasciando spazio a governi corporativi e xenofobi. Dalla Spagna, invece, si dovrebbe imparare che la sinistra sfonda a sinistra (se non altro Psoe significa Partito socialista operaio di Spagna) con programmi di sinistra. Poi magari si tiene accanto un alleato come Sumar, partito più da salotto. A guardarli all’italiana le parti sono un po’ invertite: il Psoe somiglia ai Cinque Stelle nei programmi, Sumar al Pd/Calenda. Infatti, i voti arrivano dagli elettori meno abbienti per Pedro Sanchez e più dai benestanti per il partito di Yolanda Diaz. Ma alla fine cambia poco.

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Il problema è che le leggi elettorali fanno la differenza. In Francia il maggioritario a doppio turno consente i rassemblement frontisti, mentre in Spagna un proporzionale pure un po’ complicato dalla presenza di partitini locali fa sì che le forze politiche possano presentarsi con le loro caratteristiche bene in luce. In Italia invece la legge elettorale è un combinato disposto (anzi un pasticcio) inventato dal Pd renziano per far perdere i Cinque Stelle nel 2018. I risultati si sono visti: allora vinsero proprio i Cinque Stelle e l’ultima volta hanno vinto le destre unite contro la sinistra divisa grazie ai capolavori strategici di Enrico Letta.

Per fortuna il fronte litigioso della sinistra italiana ha trovato un elemento in comune: il salario minimo. Da lì si può forse ricominciare a tessere la tela. Anche se le smagliature continuano a essere tante. Per esempio, sul fronte della riforma della giustizia, dove numerosi sindaci, anche del Pd, si sono schierati contro il reato di abuso d’ufficio, sostenuti anche dal presidente della Campania, Vincenzo De Luca, e fomentando una palese spaccatura nel partito.

Ciclicamente, politica e giustizia si fronteggiano senza fare ammenda dei rispettivi errori. I rapporti di forza, le congiunture, anche economiche, determinano il prevalere dell’una sull’altra. Ora la destra sta cercando ancora una volta di prendere il sopravvento sulla giustizia con un’ondata di pseudo-correttivi.

In questo numero de L’Espresso i lettori troveranno, negli articoli di Sergio Rizzo e Francesco Fimmanò, il racconto di due spaccati non proprio edificanti del settore giustizia: gli incarichi ben remunerati dei magistrati amministrativi e l’uso distorto del potere giudiziario per regolamenti di conti personali o di parte. Infatti, la riforma più attesa e necessaria è quella della giustizia amministrativa più che di quella penale.

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Attenzione: la conclusione non è la supina accettazione della vendetta politica contrabbandata per riforma del comparto, ma la piena consapevolezza che tanto la politica quanto la giustizia hanno colpe da farsi perdonare, storture di cui liberarsi prima di potersi fronteggiare come limpidi poteri dello Stato, perfettamente bilanciati nel disegno dei padri costituenti.