Lo Stato dell'Asia meridionale lotta per non rimanere sommerso. Il governo di Dacca è stato costretto a costruire migliaia di rifugi contro le inondazioni e ha studiato un piano per evacuare 2 milioni e mezzo di persone

«Due anni fa ho perso una mucca. L’anno scorso la casa, spazzata via dall’acqua. Oggi vivo come in sospeso». Anonto Sarder ha 60 anni e fa il contadino. Vive a Kanainogar, un villaggio non lontano da Mongla, cittadina portuale nel sud-ovest del Bangladesh, un centinaio di chilometri a nord della baia del Bengala. Nel delta bengalese, il più ampio del pianeta, si incrociano tre dei più importanti bacini fluviali del mondo, il Brahmaputra, il Gange (qui Padma) e il Meghna. Fiumi possenti. Passano Bhutan, Nepal, India, attraversano il Bangladesh e finiscono nella baia di Bengala.

Kanainogar fa parte di un ecosistema complesso, fragile. Particolarmente vulnerabile agli effetti dei cambiamenti climatici. «Allagamenti, inondazioni, cicloni, acqua salata che penetra nelle terre coltivate, la costa che scompare». Anonto Sarder snocciola i problemi e indica lontano. Lì, in mezzo all’acqua melmosa e calma c’era casa sua. Ora vive in una casupola in bilico tra il fango e l’acqua, minacciosa. «Quando arriva un ciclone o un’inondazione violenta corriamo al rifugio. È a due chilometri da qui. Dobbiamo sbrigarci. Al rientro, non sappiamo se ritroveremo casa».

Ogni anno viene inondato tra il 30 e il 50 per cento del territorio bangladese. Nell’area intorno a Mongla il panorama è contrassegnato da pezzi di costa spariti, tronchi di palma recisi, strade, viottoli e camminamenti consumati dalla forza del mare e dei fiumi. Le storie, qui, sono simili. Anche Somor Halder indica lontano. «È la terza volta che devo ricostruire casa. Le altre due sono state sommerse dall’acqua. Il problema più grave è l’erosione della costa. Pian piano, l’acqua avanza e inghiotte la terra». Secondo i dati del Bangladesh Centre for Advanced Studies, istituto di ricerca per lo sviluppo sostenibile con sede a Dacca, «l’innalzamento di un metro del livello del mare avrà ripercussioni sul 17 per cento del territorio nazionale, nell’area che corrisponde alla zona costiera piatta». Un problema che riguarda almeno il 13 per cento dei 170 milioni di cittadini bangladesi. Più di 22 milioni di persone.

Giubbotto verde, sarong celeste, sciarpetta al collo, baffi e pizzetto segnati di bianco, Somor Halder indica un solco sul terreno: «Tra tre ore, con l’alta marea, l’acqua arriverà fino a qui», nota con un sospiro. È il ritmo incessante della natura raccontato ne “Il paese delle maree” e ne “La grande cecità” dallo scrittore indiano Amitav Gosh. Somor Halder vorrebbe arginarlo, contenere la forza della natura, costruire «un muro di protezione», ma non ha abbastanza soldi. A differenza del vicino, Anonto Sarder, ha potuto comunque costruire una casa rialzata. «La struttura è come la precedente, in legno, ma è su una base di cemento alta mezzo metro». Non c’erano alternative: «a forza di indietreggiare rispetto all’acqua, non avevo più terreno a disposizione. Spero che duri almeno dieci anni».

Statistiche e previsioni promettono male. La media globale dell’innalzamento del livello del mare è di 3,2 millimetri all’anno, ma in Bangladesh in alcune zone arriva fino a 8 millimetri. Se lo scioglimento dei ghiacciai seguirà le tendenze attuali, nei prossimi 50 anni tutta l’area costiera verrà inondata dall’acqua salata. «Un problema enorme già ora», spiega all’Espresso Swapan Kumar Guha, co-direttore di Rupantar, organizzazione non governativa impegnata per i diritti umani e «sempre di più nella gestione dei disastri ambientali e nell’adattamento ai cambiamenti climatici». Per Kumar Guha l’accesso all’acqua potabile è il problema principale: «In questa zona manca. Cicloni e inondazioni danneggiano gli stagni familiari o comunitari usati come riserve, le falde sotterranee». L’acqua salata penetra anche nelle aree coltivate. Condiziona ciò che si coltiva, come lo si fa, i commerci piccoli e grandi. La vita intera. Negli ultimi decenni, «molti hanno dovuto reinventarsi un lavoro e una vita». A volte pagando scelte imposte dall’esterno.

Negli anni Sessanta, per aumentare la produzione di riso proteggendo l’estuario dalle inondazioni stagionali, nel delta del Gange-Brahmaputra gli ingegneri statunitensi e olandesi realizzano un imponente sistema di argini artificiali. Secondo i risultati di una ricerca pubblicata nel 2015 sulla rivista Nature Climate Change, da allora le aree recintate si sono abbassate di almeno un metro. L’acqua è salita. Negli anni Ottanta, sostenuti dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale, gli imprenditori locali convertono le terre dalla coltivazione del riso ai gamberi, sempre più richiesti da Stati Uniti ed Europa. Oggi quello dei gamberi è il secondo settore per esportazioni nel Paese, dopo il tessile, ma il prezzo del successo - spiega Kasia Paprocki, ricercatrice alla London School of Economics - è «un disastro ecologico e sociale per le comunità locali». È la “rivoluzione blu” dell’acquacoltura: Paesi come Bangladesh, Vietnam, Honduras diventano mercati di produzione per i consumatori euro-atlantici e asiatici. Quel che si mangia a Parigi, New York o Singapore si produce in villaggi come questo, sospesi sull’acqua. O affondati nel fango.

Nel fango crescono anche i granchi di Somor Halder. «Non è un brutto lavoro», sostiene poggiando in terra una cesta piena di granchi. Li tasta uno a uno. Poi li espone controluce. «Se la luce non filtra, vuol dire che la pancia è piena e sono pronti». Pronti per il mercato di Mongla, i ristoranti di Dacca, Taiwan, Dubai. La filiera è lunga. Il lavoro sporco si fa qui. «Negli ultimi due decenni, con l’innalzamento del mare la salinità dell’acqua è cresciuta molto, di conseguenza è diminuita la produzione di riso e altre colture ed è aumentata quella di pesce», spiega Rafiqul Islam Khokan, fondatore dell’organizzazione Rupantar. Il valore dell’export di granchi è passato da 7 milioni nel 2011 a 23 milioni nel 2016. I profitti crescono, «ma a noi piccoli allevatori rimangono le briciole», nota Halder, che vive in una zona di produzione, ma poverissima.

Lungo il fiume, sul sentiero rosicchiato dall’acqua ci sono pali di legno con le reti da pesca ad asciugare. Le barche di legno scuro poggiano sul fango. I pescatori sistemano gli attrezzi. Due donne trascinano una rete a strascico sulla riva. Le case sono semplici. Sul sentiero sono adagiate alcune pile di mattoni rossi. Tre donne lavorano senza sosta. Costruiscono una casa in muratura. Una vera rarità. «Quanto ci costerà? Trecentomila taka (circa tremila euro, nda)», spiega Shantona Sarder. I soldi arrivano da Dacca: «Mio marito è infermiere all’ospedale, mio figlio lavora in un hotel». Mostra le fondamenta: «Il pavimento è a un metro dal terreno, la casa sarà alta di 5 metri, le camere al piano superiore». È costruita lontano dal sentiero, all’interno. «In passato abbiamo avuto tanti problemi». La donna si toglie le ciabatte e scende sul letto melmoso del fiume. Abbassa lo sguardo. Gira in tondo. Poi trova quel che cercava: «ecco, questo era il bagno». Spera che questa volta sarà diverso. Che la casa in muratura, costata sacrifici, sia più resistente all’acqua. Perfino dei cicloni.

Il territorio del Bangladesh affacciato sulla baia del Bengala è particolarmente esposto. Nel 1970, un ciclone ha provocato 300 mila vittime, 100 mila nel 1991. Nel marzo 2009 il ciclone Aila ha provocato 100 mila sfollati e circa 200 mila tra India e Bangladesh. Le vittime diminuiscono perché le istituzioni conoscono i rischi da tempo. Da tempo provano ad affrontarli. Il ministero per la Gestione del rischio e il soccorso, istituito nel 2012, ha costruito 2.590 rifugi da ciclone, centinaia per le inondazioni. La strategia istituzionale è raccolta nel Bangladesh Climate Change Strategy and Action Plan, che dispone di circa 100 milioni di dollari ogni anno. Grazie a un capillare sistema di informazione e allarme, oggi è possibile evacuare 2 milioni e mezzo di persone. New York non saprebbe fare altrettanto.

Il perché lo spiega nel suo ultimo libro, Amitav Gosh, i cui antenati «sono stati rifugiati ambientali molto prima che si coniasse tale definizione». Il cambiamento climatico «ha rovesciato l’ordine temporale della modernità: quanti si trovano alle periferie ora sono i primi a sperimentare ciò che ci attende tutti; sono loro a confrontarsi più direttamente con quella natura che Thoreau definiva ‘vasta, titanica, disumana».

Ne è convinto anche Atiq Rahman, memoria storica dell’ambientalismo asiatico e fondatore del Bangladesh Centre for Advanced Studies. Alle spalle ha 35 anni di ricerche e attivismo. «All’inizio ci prendevano per matti. Quando ancora misuravamo l’altezza dell’acqua con le asticelle, gli studiosi europei e americani parlavano di povertà, noi di sicurezza ambientale». Perfino con l’istituzione dell’Intergovermental Panel on Climate Change, nel 1988, il punto di vista prevalente «rimane bianco, anglosassone, euro-atlantico. Noi invece sapevamo che l’aumento di un solo grado della temperatura avrebbe colpito innanzitutto i Paesi più poveri ed esposti». Meno responsabili del Nord industrializzato, ma colpiti più duramente dagli effetti del cambiamento climatico. «Intuivamo che il mondo si sarebbe mosso in una certa direzione, e noi ci saremmo trovati nel mezzo». In un’epoca di transizione, stare nel mezzo è sia un rischio che un’opportunità, sostiene Atiq Rahman. «Qui la realtà è già fatta di conflitti con la natura, aggiustamenti, eventi estremi, flessibilità. La gente ha il potere di dipendere da se stessa. Il Bangladesh può mostrare la strada al mondo nella resilienza e nell’adattamento ai cambiamenti climatici».

Le pratiche virtuose si trovano proprio nei luoghi più esposti. Se da Mongla si oltrepassa il porto, sull’altro lato del fiume Pashur si raggiunge Banishanta. Le case sono costruite su alti tronchi di legno. Al mercato si vende pesce, qualche ortaggio, poca carne. Il paese è povero. Gli abitanti, ingegnosi. Lungo il sentiero per il villaggio di Dhangmari i contadini sono piegati sui campi. È tempo di raccolta. «Usiamo una varietà di riso più resistente alle inondazioni», spiegano. Selezionata e tramandata. Nei cortili delle case ci sono orti rialzati. C’è chi coltiva su reti fatte di bambù riempito con la terra: «galleggiano in caso di inondazioni». Bastano pochi metri di terreno coperti da una rete da pesca e quattro pali per ricavare un piccolo orto.

Gli stagni hanno usi diversi: per lavare i panni, per l’acqua piovana, per allevare pesci o granchi. Qualcuno usa reti di nylon che si adattano ai vari livelli dell’acqua, «così i pesci non scappano con le inondazioni». Gli argini degli stagni, rialzati e rinforzati, sono per le verdure. Nelle case si raccoglie e filtra l’acqua piovana. Nibas Inamdar ha tre orticelli rigogliosi. Ha rialzato le fondamenta della casa. Nel cortile, in un angolo c’è la legna per l’inverno. Su una parete esterna vengono fatti essiccare gli escrementi di mucca. Le figlie si preparano per la scuola, sorridenti. «I cambiamenti climatici? Sono centinaia di anni che la mia famiglia vive da queste parti. Siamo abituati», taglia corto Nibas Inamdar.