Lo stato celebra dieci anni d’indipendenza. Ma i suoi problemi storici restano tutti irrisolti e gli uomini al vertice del potere sono nel mirino del tribunale per i crimini di guerra (Foto di Simone Donati e Rocco Rorandelli)
Hashim Thaci, presidente della Repubblica; Ramush Haradinaj, primo ministro; Kadri Veseli, capo del Parlamento. Il
Kosovo che ha festeggiato con grande sforzo spettacolare il 17 febbraio i dieci anni di indipendenza ha ai suoi vertici tre ingombranti personaggi che rischiano seriamente l’incriminazione per crimini di guerra da parte del Tribunale speciale che deve valutare i delitti commessi durante il conflitto di fine anni 90.
Non esiste
Stato al mondo con un profilo così devastato. All’epoca erano tutti comandanti dell’Uck, l’esercito di liberazione dell’ex provincia serba, e da allora i loro nomi sono apparsi a cadenze regolari nei rapporti delle procure e delle forze dell’ordine internazionali per vicende atroci. Non si è mai arrivati a una condanna ma i tre, smessa la divisa militare e indossata giacca e cravatta, non sono mai riusciti ad allontanare da sé l’ombra di pesanti sospetti che minano la loro credibilità come rappresentanti istituzionali.
Hashim Thaci, 49 anni, il presidente, quando faceva il guerrigliero aveva un nomignolo di uguale desinenza ma assai più inquietante: era detto “il Serpente”. Un rapporto dei servizi segreti tedeschi reso noto da WikiLeaks lo issava a boss di un’organizzazione internazionale dedita al contrabbando di droga, eroina soprattutto. Il Consiglio d’Europa aveva rincarato con un dossier del senatore svizzero Dick Marty in cui agli stupefacenti si aggiungono le armi e il traffico di organi. Sospetti che aveva nutrito pure la procuratrice Carla Del Ponte e svelati nel suo libro di memorie dove si sottolinea il clima di omertà, minacce e ritorsioni che hanno reso impossibile completare le indagini.
Ramush Haradinaj, il premier, coetaneo di Thaci, faceva il buttafuori in una discoteca in Svizzera prima di diventare “Rambo”, appellativo mutuato dai film con Sylvester Stallone, per l’audacia nelle imprese belliche che lo hanno visto protagonista. Era già diventato premier nel 2004 ma si dimise dopo cento giorni di mandato per consegnarsi al tribunale internazionale dell’Aia che lo aveva incriminato per persecuzione, omicidio, saccheggio, distruzione immotivata di città e villaggi, deportazioni forzate. Fu assolto in primo grado ma la Corte denunciò il clima di paura per il quale molti testimoni si rifiutarono di comparire mentre almeno sei erano morti in circostanze sospette. In appello stesso verdetto e analoghe denunce dei giudici circa la mancanza di serenità delle persone chiamate a deporre.
Kadri Veseli, 50 anni, capo del Parlamento, era ai vertici dell’intelligence prima di dedicarsi alla politica. Pur più defilato degli altri due, il suo nome compare tuttavia nel “rapporto “Marty” per le coperture che sarebbe stato in grado di offrire ai sodali nel suo potente ruolo alla guida degli 007.
Dopo quattro lustri di sostanziale impunità di cui hanno goduto i vertici militari dell’Uck, la nuova Corte Speciale è nata per perseguire i crimini commessi contro i civili serbi, rom e albanesi moderati grazie a una legge votata dal Parlamento di Pristina. La sede è all’Aia e i giudici sono internazionali per evitare interferenze, i primi rinvii a giudizio sono previsti nelle prossime settimane. La presidente è una giudice bulgara, Ekaterina Trendafilova che è già stata in visita in Kosovo ma si è rifiutata di incontrare Thaci, Haradinaj e Veseli per evidenti motivi di opportunità e ha voluto confrontarsi solo con membri della società civile.
Immerso in un passato che non passa, il Kosovo non ha saputo darsi una classe dirigente diversa dai falchi “eroi” della guerra d’indipendenza di fine secolo scorso e vive una perenne condizione emergenziale da cui non riesce a emendarsi. Anche a causa delle circostanze controverse in cui si è battezzato Stato. È riconosciuto come tale da 115 nazioni, ma non da due membri permanenti dell’Onu come Russia e Cina, non da Paesi importanti dell’Unione europea come la Spagna (timorosa di scatenare, come è successo in Catalogna, appetiti secessionisti in casa). Naturalmente non da Belgrado che rivendica il Kosovo come proprio visto che in quell’area sta la sua culla natale, il primo patriarcato ortodosso, i più importanti monasteri e lì è stata combattuta, nel 1389, la battaglia della Piana dei Merli, la gloriosa sconfitta mito fondativo dell’epica serba. La disputa è l’ostacolo più rilevante per l’ingresso dei Balcani occidentali nell’Unione europea e i negoziati che si susseguono da anni non hanno ancora portato a risultati concreti. Così come le tensioni tra la maggioranza albanese (poco meno di due milioni di persone) e la minoranza serba (120 mila, chiuse in vere e proprie enclave) non sono mai approdate a un dialogo fecondo come dimostra l’omicidio, il 16 gennaio scorso, di Oliver Ivanovic, il leader serbo ucciso davanti al suo ufficio di Mitrovica Nord con colpi sparati da un’auto in corsa.
Belgrado ha minacciato di inviare l’esercito a protezione dei fratelli separati dal confine. E fosse il solo problema. Un contenzioso territoriale esiste anche col Montenegro, mentre non è mai tramontato, tra i più estremisti, il sogno di una “Grande Albania” che racchiuda il territorio con capitale Tirana, il Kosovo e quella fetta di Macedonia occidentale abitata in prevalenza da albanesi lungo la linea Tetovo-Gostivar-lago di Ocrida. Il tutto mentre il magnate Behgjet Pacolli, da noi noto come ex marito di Anna Oxa, ora ministro degli Esteri, auspica che nei Balcani vengano «liquidati i confini» perché gli uomini e i capitali possano «circolare liberamente». Programma utopistico e proprio di un imprenditore nel luogo dove di frontiere dopo le guerre ne son nate sette.
Dieci anni di indipendenza, dunque, ma un sostanziale limbo istituzionale per uno Stato che non è ancora del tutto Stato, sta in equilibrio precario e la cui piena legittimazione, se mai avverrà, ritarda a causa del sospetto di aver creato un buco nero di malaffare in un angolo d’Europa. La corruzione dilaga, i clan criminali gestiscono oltre ai traffici di droga e armi, anche quello delle persone, come risulta da vari allarmi lanciati dai corpi di polizia internazionali. I tre personaggi al vertice sono lo specchio di un Paese incapace di incamminarsi verso una democrazia compiuta. Nel solo 2017 si sono registrati 24 casi di attacchi a giornalisti “rei” di aver svolto il loro lavoro, la stragrande maggioranza rimasti impuniti o con lievi condanne per i responsabili. Quasi tutti collusi col potere politico.
A peggiorare ulteriormente le cose, la minaccia del terrorismo. Il Kosovo è il Paese che, in proporzione sul numero degli abitanti, ha fornito il maggior numero di foreign fighters all’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi: 125. Sono sorte nel Paese, finanziate dai Paesi arabi, diverse moschee wahabite, soprattutto nelle vaste campagne. Gli imam fanno proselitismo a favore del Jihad e per la creazione di un corridoio che dal Medio Oriente risale il fianco sud-ovest dell’Europa per formare la cosiddetta “dorsale verde”. Segnalato anche un campo di addestramento per fondamentalisti dove si formano le ultime reclute per l’attacco all’Occidente in aree pericolosamente vicine ai nostri confini.
La situazione globale impedisce, naturalmente,
la crescita di qualunque economia di mercato. La disoccupazione si attesta oltre il 30 per cento e sale al 50 per cento tra i giovani cui non resta che emigrare. Gli stipendi medi non arrivano a 400 euro. Una famiglia su tre vive sotto il livello di povertà.
La celebrazione dell’indipendenza è una festa per pochi. I kosovari chiamano i figli col nome Toniblair dal premier inglese che favorì la secessione, passano riverenti davanti alla statua in onore di Bill Clinton per i bombardamenti che fermarono i serbi nella regione. Mostrano con orgoglio la cattedrale intestata a Madre Teresa di Calcutta, il meglio del prodotto nazionale. Ma il loro simbolismo planetario qui si ferma. Con il loro passaporto possono entrare solo in dieci Paesi, meno ad esempio dei palestinesi. Il Kosovo esiste solo sulla carta geografica.