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Antonio e i suoi fratelli, la meglio gioventù. Ecco le persone dell’anno 2018 de L’Espresso
Emma, che ha svegliato l’America contro le armi. Silvia, rapita perché voleva aiutare gli ultimi. E poi Paola, Jaiteh, Linda, Ana Isabel... Il 2018 è stato il loro anno. Di tragedia e di speranza
Il 24 marzo scorso, in una Washington gelidamente assolata, ottocentomila persone provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti hanno marciato fino a un palco sconcertante, sul quale si è affacciata Emma González , 18 anni. Ha incominciato dignitosamente a piangere e per minuti ha fronteggiato l’immensa folla stando in silenzio. La massa ha inizialmente fischiato, applaudito, consumato il nervosismo che l’acuzie del silenzio impone a una generazione perennemente bombardata dal rumore digitale. Poi ha taciuto. È stato un lunghissimo momento, sacrale, incongruo per gli standard contemporanei, l’atto simbolico e politico più significativo di una generazione, quella under 30, che, quanto a simboli, sta emettendo acuti uno dietro l’altro - qualcosa di inaudito o a cui i timpani non erano più abituati da decenni. Di origine cubana, bisessuale, la testa rasata, il giubbotto a foggia militare, lo sguardo dritto che parla da una distanza e da una prossimità entrambe assolute, Emma González è stata su quel palco per 6 minuti e 23 secondi, precisamente il tempo in cui l’ex studente Nikolas Cruz aveva effettuato la strage nel liceo di Parkland un mese prima della manifestazione che culminava nel non discorso della giovane sopravvissuta a quella mattanza. 17 morti che avevano scosso non più di tanto un colosso addormentato nel respiro della sua violenza costante e incrementale, gli Usa patria delle libere armi e della schiavitù alla morte incivile, quotidiana, derubricata a ciclico evento dai media di massa. Ma questa volta, no: la reazione di una ragazza poco più che maggiorenne, la cui vita è stata per sempre sfigurata, ha condotto alla marcia più partecipata dai tempi del Vietnam e ha prodotto un emblema, che scuote le coscienze e buca la memoria.
Emma González riassume il carattere e le caratteristiche di una generazione giovane che oggi, per praticare la sua rivoluzione, utilizza l’arma del silenzio, anche quando parla, e lo fa perché esprime del tutto naturalmente valori precisi e non negoziabili - una pratica che sembrerebbe démodé, vintage, addirittura arcaica. Il discorso dei valori è il nido di vipere dell’enfasi e della retorica, ma è impossibile non intercettarlo, pur nell’incomprensione di quanto vive la prima generazione globalizzata e digitale. C’è una meglio gioventù che pratica valori, in forma di sogni, inflessibilmente praticati come utopie concrete. Rifugge l’oscenità della spettacolarizzazione e del buon mercato, opera fuori dal mercimonio delle visibilità, ma, quando convocata, produce simboli difficilmente scordabili.
Non è scordabile, per esempio, questa scena: c’è una pista di aeroporto desolata, ingrigita dall’inverno, quella solitudine sconsolata che soltanto gli spazi aeroportuali conferiscono a momenti di attesa e sospensione - e nell’immensità della pista camminano solitari, dietro una bara, in un immane vuoto silenzioso, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, un passo indietro a un uomo di mezza età e a una ragazza, che sono Domenico Megalizzi e Luana Moresco, il padre e la fidanzata di Antonio Megalizzi, giornalista ucciso nella strage di Strasburgo dell’11 dicembre. Tre generazioni sul feretro di un giovane uomo diventato simbolo suo malgrado. Apparentemente non faceva nulla di eroico, il ventinovenne trentino che si trovava nella capitale europea per raccontare, sulle frequenze di una radio universitaria, il continente e la politica. Raccontava una visione immaginata a Ventotene da un italiano come lui ed esportata nella realtà attraverso decenni di minuziosa costruzione collettiva. Un’Unione che conta non solo i suoi padri, ma anche i figli fondatori - e Antonio Megalizzi è per sempre uno di costoro. Era, e non smette di essere, un giornalista e si tratta di un dato importante, perché questa professione, in cui si sono spese le cifre più alte del cinismo e dell’ansia di oscenità, è anzitutto questo: testimonianza. Prima ancora di diffondere informazione e cultura, il giornalismo è radicale testimonianza - un valore di base, per l’appunto non negoziabile, che Antonio Megalizzi interpretava con uno sguardo sorridente, dato più morale che fisiognomico, e dunque struggente per chi è stato costretto a conoscerlo in ragione di un proiettile esploso dallo stragista Cherif Chekatt. L’oscenità arriva semmai da altrove, dai tweet intollerabili della macchina comunicativa salviniana, che ha fatto di tutto per intitolarsi l’uccisione del terrorista e a cui lo stesso Megalizzi opponeva una nettezza inflessibile - sulla sua pagina Facebook è un fiorire di post eleganti e affabilmente sardonici contro Salvini e la Lega, fino a un memorabile vocativo indirizzato al ministro, “indagato tra gli indagati”: «Machiavelli ti spiccia casa», scriveva poco meno di un mese prima di morire. Come nel verso di uno dei principali poeti contemporanei italiani, Milo De Angelis: «schifo, sii netto». Se pure la persona, la storia e le prospettive incarnate da Antonio Megalizzi ci raccontano di una gioventù che presidia il territorio dei propri sogni e dei valori a cui lavora, non per questo vengono meno l’intransigenza e la militanza: c’è un fondamentalismo, un integralismo del bene comune. Ci sono sogni non contrattabili, come l’Europa, la convivenza, la lotta all’odio. Antonio Megalizzi desiderava essere diversamente simbolo, rispetto a come gli è tragicamente accaduto di diventare, ma a colpire è appunto la naturalezza con cui costruiva se stesso e gli altri, intorno a valori che i manicheisti più anziani abitualmente misconoscono a chi abbia meno di trent’anni. Non è forse più riproponibile l’apparente ossimoro di “eroe borghese”, con cui Corrado Stajano immortalò Giorgio Ambrosoli, ma certo non smette di risultare cruciale la categoria dell’“eroe normale”: un eroismo schivo, che non ama le luci della ribalta, praticato di giorno in giorno, una resistenza umana all’atmosfera invelenita di questo pianeta.
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L’eroismo normale della generazione sotto i trent’anni, un dato rivoluzionario anche se magari non maggioritario, seleziona e produce i suoi momenti simbolici. C’è sempre un sorriso di mezzo, c’è sempre la vocazione a una testimonianza e all’azione a favore altrui. La lotta all’odio, alla povertà, alla morte imposta dal sistema economico. Come nel caso di Silvia Romano, la 23enne cooperante rapita in Kenya. Non ha potuto fronteggiare l’abnorme tsunami di pura malvagità, che ha sommerso il suo nome sui social e sui media, a poche ore dal sequestro. Lo ha fatto in suo nome la sua propria storia. Attaccata in quanto donna, in quanto capace di aiutarli a casa loro, in quanto perseguitrice di un sogno umano che è libertà, uguaglianza, fraternità. Laureata in mediazione culturale, alla sua seconda missione in Africa, è stata fatta oggetto di paternalismo viscoso, di infamia di massa, addirittura di triviale pubblicità da parte del ministro degli interni, che si è messo a twittare su presunti passi avanti nel caso. Era già capitato, quando il 2.0 non era ancora maturato. Accadde alle cosiddette “due Simone”, le cooperanti Simona Torretta e Simona Pari rapite a Baghdad ne 2004: le irrisero sui giornali, le dilaniarono prima e dopo il rilascio. Dissero che a nessuno, neppure a due ragazze coraggiose, è consentito di proporre il proprio mestiere come visione del mondo - e lo hanno detto anche di Silvia Romano. Perché non si può proporre il proprio lavoro come visione del mondo? Lo si può fare anzitutto a partire dalla testimonianza, quella azione naturale praticata tanto dal giornalista Megalizzi, quanto dalla cooperante Romano. E’ la radicalità della meglio gioventù: non smette di esserlo.
Il discorso sulla meglio gioventù è insidioso. Anzitutto perché non è contemplata una peggio gioventù. Qui si tratta di un impegno in qualche modo radicale, anche se non vistoso. E’ una cifra collettiva. La banalità del male è diventato uno slogan, chissà quanti si sono letti davvero Hannah Arendt e hanno compreso che saranno banali le persone che agiscono, ma non lo è affatto il male stesso. Il bene è ancor meno banale. In letteratura si dice: il bene non fa romanzo. Esiste la radicalità del bene. Un simile assolutismo produce i suoi testimoni, che da etimologia sono questo: martiri. Il martirio non necessita affatto di morte, ma non può esistere senza l’atto della testimonianza. Spesso i martiri sono coloro che sopravvivono. A cosa? Alla deriva che sempre trionfa e che non cessa di chiamare a resistenza umana. Scriveva sui social qualche giorno fa padre Enzo Bianchi, uno che di bene si occupa dalla mattina alla sera: «Le indagini sociologiche dicono che oggi nella nostra società è aumentata la cattiveria e noi lo costatiamo». La meglio gioventù è precisamente il corpo sociale che intende rovesciare quelle indagini sociologiche. Lo fa immettendo simboli e questa è una funzione non nuova, ma davvero infrequentata da decenni in Italia. Il discorso è forse irto, ma vale la pena di farlo. I giovani italiani popolano una landa che è stata stremata dal punto di vista simbolico. Un po’ ovunque, nei decenni scorsi, si è sparato addosso ai simboli. Bisognava essere ironici, decostruirli, farne a meno. Oppure essere totalmente passivi e guardarli nello schermo. Nell’epoca della politica personalizzata, il simbolo in realtà cadeva in discredito. Per esempio, da quasi trent’anni da destra (si veda Berlusconi) e da sinistra (si veda Renzi) va avanti una retorica sul sogno. Il lavoro bello è un sogno, farsi la famiglia è realizzare un sogno, avere successo è coronare un sogno. Soprattutto: se sei giovane, devi sognare. La civiltà televisiva di massa ha emesso una sentenza di morte in forma di sogno a chi ci cresceva in mezzo. L’epoca digitale ha trasceso tutto, tranne che la retorica del sogno. Continua a essere tutto un sogno, così come tutto è empatia, resilienza, condivisione. Una melassa suppurante che confonde chiunque e qualunque cosa, una pappa marcescente di intollerabile moralismo d’accatto e di orrore sociale che ne viene spalancato. La meglio gioventù attuale è invece il momento storico in cui un sogno torna a essere vero. La dimensione continentale, addirittura intercontinentale, in cui i confini sono incubi e la comunanza è per l’appunto il sogno - è l’origine e l’esito di un sistema di valori contemporaneo, che emette simboli naturalmente.
Paola Egonu, 20 anni, schiacciatrice da record della nazionale italiana di volley, sbaraglia il sistema mediatico italiano: «Sì, ho una fidanzata». È un coming out più complesso di quanto sembri. Egonu vanta un’origine nigeriana, eccelle in Italia e dice: «Un’appartenenza non esclude l’altra». Con dieci parole ha distrutto due allucinanti tabù che ci tocca vedere esaltati nelle domeniche leghiste. C’è un fatto ulteriore. Egonu trascina la squadra in finale ai campionati del mondo di pallavolo e viene sconfitta, sta male e lo dice: è il contrario del sogno. Impiega due dichiarazioni stringate per diventare un simbolo e, da quel momento, ne è consapevole e non smette di esserlo.
Che le appartenenze non siano opposti ma si tengano vale anche nel caso di Ana Isabel Montes Mier, 31 anni, spagnola, capo missione della ong ProActiva sulla nave Open Arms, indagata dalla procura di Ragusa perché salva naufraghi nel Mediterraneo. I capelli tinti di azzurro, i tatuaggi dalla spalla al gomito, la maglietta d’ordinanza: tutto è iconico, diviene simbolo istantaneamente.
E non si tratta soltanto di impegno politico, di diritti, di un internazionalismo praticato con estrema naturalezza, come antidoto al razzismo che deflagra in Europa e nel mondo. C’è la radicalità del pensiero, delle analisi, delle professioni che spingono un passo più in là l’acquisizione dei saperi e la trasformazione del mondo. Non si tratta di eccellenze lavorative, dei cervelli in fuga con clausola di salvaguardia. E’ questione proprio di sogno, di impensabilità, almeno fino a questa generazione. Prendiamo Marte. Ci sono almeno due giovani italiane che stanno trascinando il presente verso la più estrema delle migrazioni: Linda Raimondo, 19 anni, appena insignita dall’Agenzia Spaziale Europea per un progetto concernente l’ammartamento, e Emma Gatti, classe 1985, alla Nasa impegnata nelle ricerche di acqua sul pianeta rosso. Dai trentenni in giù si sta facendo sentire il massimalismo di visioni che soltanto qualche anno fa sarebbero apparse irrealizzabili. Si sarebbe parlato di proprio utopie.
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Nel momento in cui vengono emessi nomi simbolici, rappresentanti della generalità intorno a cui si agglomerano le vaste comunità giovanili che intendono cambiare il mondo, la cifra costante resta appunto la comunità e non gli emblemi. «A caratterizzare le lotte delle generazioni più giovani è anche e soprattutto il rifiuto della rappresentanza e quindi della rappresentazione in termini di leader e portavoce», dice un osservatore privilegiato e del tutto partecipe, lo scrittore Wu Ming 1. Anche la nazionalità va a gambe all’aria. Si pensi alle 150 mila persone, in gran parte donne, portate in piazza a Roma da Non Una Di Meno, una marea rosa porpora che ha fatto perno su un collettivo e ha convocato una massa, annichilendo i numeri delle mobilitazioni nazionali, sempre romane, organizzate da partiti come Pd e Lega. È quasi impossibile conoscere i nomi dei giovanissimi attivisti LGBT che, per protestare contro la politica di repressione imposta da Putin in Russia e al divieto di esporre la bandiera arcobaleno, nel corso dei recenti mondiali di calcio si sono presentati negli stadi, uno accanto all’altro, indossando magliette di nazionali che componevano il simbolo multicolore. La dimensione del collettivo non evita di portare il piano simbolico su un livello più alto: sono schemi di riconoscimento, simbologie adottate da centinaia di migliaia di persone, esattamente come accaduto con i gilet gialli in Francia. Simboli vasti con cui comporsi in una moltitudine qualificata, identitaria, che pensa la propria alternativa allo stato vigente.
In Italia si è fermi al palo, tra i calvinismi moralisti degli adulti che valutano impunemente le cause e gli esiti della tragedia di Corinaldo, dipingendo legioni di giovani malate di nichilismo e alienazione, o in preda a un’imbelle e cartilaginea consistenza. Si sono lette parole di psicoanalisti su grandi quotidiani, che riguardano al fenomeno giovanile come a un’evoluzione psichica, quando è principalmente una rivoluzione politica. Alberto Ferretto, 29 anni, originario del Vicentino, è apparso su Facebook e quindi sui media nazionali, sorridendo: gli mancavano gli incisivi, spezzati dalle violenze di una baby gang di cui era stato vittima. E’ un simbolo, è una persona – ma il tema, ovvero il bullismo e la violenza giovanile diffusa, è in grado di richiamare decine di migliaia di giovani in piazza. Non c’è su questi giovani nessuna controllabilità attraverso la comunicazione, il condizionamento mediatico, la diffusione di fake news. C’è al contrario una coscienza collettiva, che la meglio gioventù sta esprimendo in modo incontrovertibile, ridicolizzando le sirene della fine della storia.
Scriveva Pasolini, proprio ne “La meglio gioventù”: «Io son nero di amore, desidero senza desiderio». Si chiamava Jaiteh Suruwa, 18 anni, proveniente dal Gambia, il ragazzo morto nel rogo di San Ferdinando, nella baracca in cui dormiva. Agli operatori dello Sprar, che gli chiedevano cosa sognasse di fare nella vita, aveva risposto: «Voglio fare cose buone». È morto in silenzio e nel silenzio, generale, che Roberto Saviano ha denunciato nel numero precedente di questo giornale. È la radicalità del bene, è il silenzio di Emma González, è un simbolo che non smania di esserlo, ma resta inscalfibile.