A 73 anni, vuole far rinascere in Italia un partito dell’uguaglianza. «Perché la sinistra o fa quello o non è». Parla il presiente del Senato e leader di Liberi e Uguali. Che racconta anche la sua amicizia con Giovanni Falcone

L’entusiasmo e il piglio con cui Pietro Grasso incarna il ruolo di leader della sinistra sono una delle sorprese di questo inizio di campagna elettorale. Chi aveva pensato che fosse semplicemente un uomo-simbolo, scelto a tavolino per dare smalto a una coalizione di facce usurate, ha scoperto un oratore potente e un politico determinato. Accompagnato dall’aura di una vita spesa a combattere la mafia e dall’esperienza più recente di presidente del Senato, Grasso è alla ricerca di quella che chiama “la connessione sentimentale” con il popolo della sinistra. Così galvanizza platee esibendo l’emozione di uomo solo al comando, inventa il nome di Liberi e Uguali, lancia idee controverse (come l’abolizione delle tasse universitarie), fa addirittura intravedere la possibilità di un accordo con i 5Stelle per un futuro governo. E di fronte a chi avanza qualche distinguo, come alcuni vecchi leader, o a chi si accoda per suggerire un ticket, come Laura Boldrini, non rinuncia alla responsabilità di decidere.

Lo aiutano un aspetto piacevole, un’eleganza da signore siciliano e forse anche un’età (73 anni) che lo contrappone all’overdose di giovanilismo degli ultimi anni e lo fa paragonare ai due grandi vecchi della sinistra anglosassone, Jeremy Corbyn e Bernie Sanders.

Presidente, è così? È per questo che è stato accettato facilmente da un popolo di disillusi?
«Penso di essere riuscito a trasmettere la passione con cui ho intrapreso questa avventura politica».

Non ha sospettato di essere stato scelto soprattutto perché estraneo al vecchio mondo politico? Un papa straniero rassicurante.
«Se quella è la motivazione, è un problema di chi l’ha pensata. Io ho visto che mi si offriva l’occasione di realizzare il mio progetto. E l’ho presa».

Qual è il suo progetto?
«Quello di mettere al centro le persone. Vedo una società frantumata, gente che cammina con la testa bassa, che non sa se arriverà alla fine del mese. Vorrei veder rialzare quelle teste restituendo a tutti i diritti negati: il diritto alla scuola, al lavoro, alla salute e anche alla casa. Questa è la sinistra che mi interessa, fatta di valori e non di appartenenza a partiti. E ora di riaffermare che alla base di tutto ci sono i principi di uguaglianza sociale».

Infatti lei si è dichiarato un “ragazzo di sinistra”. Francamente finora nessuno se ne era accorto.
«Questo è un bene, perché fino a poco tempo fa sono stato un magistrato, una funzione dove bisogna non solo essere imparziali, ma anche apparire imparziali. Poi come presidente del Senato ho dovuto garantire la terzietà. Solo oggi posso far emergere i miei sentimenti politici. Ma sappia che già negli anni Sessanta mio padre, che era di idee socialiste, mi portava in piazza ai comizi di Nenni. Poi, per darmi l’idea della pluralità, mi portava anche ai comizi di Almirante. Voleva che vedessi tutto per farmi un’opinione».

Proprio in quel periodo scoppiava il Sessantotto. Lei lo ha vissuto?
«L’ho visto da lontano. In quell’anno facevo il militare e avevo da poco vinto il concorso da magistrato. Due anni dopo mi sarei sposato e tre anni dopo avrei avuto un figlio».

Perché correva tanto?
«Erano altri tempi e l’importante era rendersi al più presto autonomi dalla famiglia. Dovevi gettare subito le basi del tuo programma di vita. Il mio sogno di fare il magistrato era sorto da bambino, di fronte alle pozze di sangue dei cadaveri per le strade di Palermo e l’ho realizzato appena possibile. E poi avevo già trovato la ragazza del mio cuore, che è ancora accanto a me».

Già, sua moglie è una figura importante nella sua vita. Si dice che sia il suo unico spin doctor.
«La verità è che ogni tanto la tiro in ballo per farmi da scudo. Del resto lei ha le mie stesse idee, anzi più esplicite. Quando faceva l’insegnante era sempre in prima fila nelle manifestazioni con gli striscioni dei Cobas. Io ero sostituto procuratore e mi raccomandavo al questore: “Per favore non me la manganellate troppo”».

È questa affinità che vi ha tenuto insieme per quasi 50 anni?
«Oltre all’affetto, direi che il merito è tutto suo. Ha condiviso le mie scelte e accettato le mie lunghe assenze per lavoro. Soltanto il maxi processo a Cosa nostra mi ha tenuto distante quattro anni. Un’assenza che mio figlio, allora adolescente, ci ha messo molto tempo a perdonarmi. Poi ha deciso, senza dirmelo, di fare il poliziotto, una scelta che lo avvicinava a suo padre, ma nello stesso tempo lo distingueva».

Nella sua vita sembra contare molto anche l’amicizia. Quella con Falcone è ormai entrata nel mito.
«È stata un’amicizia fraterna e profonda, cominciata sul lavoro nella stima reciproca e finita a Capaci il 23 maggio del ’92, in quella strage dove avrei dovuto morire anch’io se non avessi trovato un posto all’ultimo momento su un aereo. Falcone mi è stato strappato nel momento più intenso del nostro rapporto. Eravamo a Roma, distaccati al ministero di Grazia e Giustizia dove ci aveva chiamato Claudio Martelli, allora ministro, e passavamo insieme tutto il tempo. Ho saputo più tardi che, proprio a Roma, siamo scampati a un attentato per un curioso equivoco».

Racconti.
«Anni dopo un collaboratore di giustizia mi ha confessato: “Vi seguivamo e avevamo l’ordine di colpirvi quando andavate al vostro ristorante abituale, Il Matriciano nel quartiere Prati, ma non vi ci abbiamo mai trovato”. Il fatto è che il nostro ristorante era La Carbonara a Campo de’ Fiori. Ci ha salvato l’ignoranza dei mafiosi in materia di pastasciutta».

C’è un’altra sua amicizia importante che ha l’andamento di una fiction. Quella con il presidente Sergio Mattarella.
«Sì, con due momenti apicali all’inizio e alla fine. Ci siamo visti la prima volta davanti al cadavere di suo fratello Piersanti il giorno dell’Epifania del 1980, lui accorso disperato, io presente come pm di turno. Dopo tanti anni, nel salone dei Corazzieri al Quirinale, come presidente della Repubblica supplente sono stato io a passare le consegne al presidente eletto. In mezzo due vite, vissute in gran parte in parallelo nella nostra Palermo».

Nelle due settimane in cui è stato supplente non ha mai sognato di poter essere lei ad avere quella carica?
«No, io non sono una persona ambiziosa. Ho sempre lasciato che le cose mi capitassero per poi scegliere. È andata così anche quando Bersani mi ha chiesto di candidarmi alle politiche del 2013 o quando, appena eletto, mi ha detto a bruciapelo: “Ti ho proposto come presidente del Senato”. La mia vita è un susseguirsi di “sliding doors” con le biforcazioni del destino. A parte, come le ho detto, la decisione precoce di fare il magistrato».

Lei è cattolico, presidente?
«Sì, e anche praticante».

Però nel raggruppamento di cui è leader non c’è traccia di cattolici di rilievo.
«Sto lavorando perché arrivino. Il mondo cattolico fa parte del mio progetto perché ha in sé quei principi di uguaglianza sociale di cui parlavamo».

C’è Rosy Bindi che è libera.
«Lo so, l’ho cercata, ma non vuole. Ha dichiarato che non si sarebbe ricandidata ed è il tipo che rimane coerente con se stessa».

Passiamo al futile. Dicono che lei ha una faccia da attore. Pensa di essere bello?
«No».

Neanche da giovane?
«Se lo sono stato, non l’ho percepito, anche perché non mi sembra di aver avuto molto successo mondano».

Però è in buona forma fisica.
«Questo sì. L’attività fisica mi aiuta a far funzionare il cervello. Ogni mattina faccio un po’ di ginnastica e, appena posso, faccio tennis, nuoto, windsurf, sci e anche qualche partita di calcetto».

Rimpiange di non aver fatto il calciatore?
«Non è mai stato un impegno professionale. A 14 anni ero in una società seria di calcio giovanile: tre allenamenti la settimana, riunione il sabato, partita la domenica. Poi è finita lì.

Che altro fa nel tempo libero? Vedo sulla sua scrivania “Il luogo stretto” del dissidente siriano Fary Bayrader. Ama la poesia?
«Perché no? È un modo per guardare il mondo con occhi diversi. Per anni sul comodino ho tenuto Paulo Coelho, consigliato da mia moglie».

Al cinema ci va?
«Non sempre volentieri, perché al tempo del maxiprocesso fui gelato da una donna che, notando la scorta che ormai mi accompagna da più di trent’anni, sussurrò al marito “Sediamoci lontano, non si sa mai”».

La lascio con uno sguardo sul suo futuro. Lo immagina ancora istituzionale o tutto politico com’è al momento?
«Alle istituzioni ho dedicato la mia vita, ora sono in una dimensione politica che mi dà la sensazione, e anche la presunzione, di poter ancora essere utile a qualcosa».