I grandi paesi dell'America latina sono chiamati alle urne nel 2018. E gli equlibri politici e sociali del Continente sono destinati a cambiare: tra leader ?delle Farc che aspirano alla presidenza e nazioni che provano a uscire dalla crisi

L’anno del futuro, quello che ridisegnerà la geopolitica dell’America Latina. Il 2018 si annuncia decisivo per almeno sei Paesi: Colombia, Messico, Venezuela, Costa Rica, Paraguay, oltre al Brasile. Circa 350 milioni di elettori torneranno alle urne per eleggere il loro presidente e spesso rinnovare il parlamento.

Il Messico ha bisogno di uscire dalla violenza. Dei cartelli della droga e degli squadroni paramilitari, che negli ultimi dieci anni hanno provocato 100 mila morti. Vittime civili, nella maggioranza. Uomini e donne che si sono trovati nel posto e nell’ora sbagliati, che non avevano nulla a che vedere con un commercio che fattura 300 miliardi di dollari l’anno per contrastare il quale se ne spende il doppio. Una guerra alla droga persa in partenza. Ma è una realtà con cui il più grande paese del Centroamerica deve fare i conti. C’è poi la piaga della corruzione, figlia endemica del narcotraffico, costume che si è radicato nel tessuto sociale e nelle amministrazioni dello Stato. Le bustarelle sono diventate uno strumento indispensabile per smaltire una pratica, per ottenere un beneficio, per rivendicare anche un diritto acquisito. L’impunità del 98 per cento degli omicidi che si commettono in Messico secondo tutti gli esperti è dovuta alla corruzione.

C’è infine un problema di credibilità istituzionale. Se sei anni fa il presidente Henrique Peña Nieto era apparso l’uomo che avrebbe potuto varare quelle riforme con l’appoggio della maggioranza delle forze politiche, oggi ha invece finito per alterare in negativo l’immagine del Paese. La battaglia per la sua successione è in pieno svolgimento. Si voterà il primo luglio. Lo scontro è duro e lo scenario, secondo gli analisti, potrebbe offrire i tre principali candidati alla pari che si contendono l’ultima manciata di voti. Il tutto nel pieno delle trattative per il rinnovo del Nafta, o Trattato di libero commercio (Tlc) con gli Usa e il Canada, sotto l’incubo del Muro agitato da Donald Trump.

In vetta ai sondaggi c’è Andrés Manuel López Obrador, factotum di Morena, il Movimento della rigenerazione nazionale, un partito che il leader della sinistra messicana ha creato a sua immagine e somiglianza quando abbandonò il Prd, sei anni fa. Già per due volte ha cercato di arrivare a Los Pinos, il palazzo della presidenza. Perse per una manciata di voti: giunse secondo, per mezzo punto, dietro Felipe Calderón. Inviso soprattutto alla classe imprenditoriale, ossessionata dall’incubo comunista stile Maduro, il leader di Morena guida comunque tutti i sondaggi. Ma l’ampio spettro di indecisi e di astensioni potrebbe far travasare i voti decisivi verso gli altri candidati, più tranquillizzanti per le potenti lobby degli affari.

Dietro, seguono il Partido revólucionario mexicano (Pri) e il Partido Acción nacional (Pan). Per ripulire un’immagine compromessa in novanta anni di governo praticamente ininterrotto, il primo ha deciso di puntare su un candidato esterno al partito. José Antonio Meade ha un precedente che aiuta: è stato ministro in entrambe le amministrazioni, quelle di Calderón e di Nieto. Per garantirsi i voti necessari ad aspirare alla poltrona più importante del Messico, ha chiesto al Pri di essere il candidato ufficiale.

L’alternativa a quello che viene considerato il partito della corruzione e al populismo è Ricardo Anaya, fino a qualche settimana fa presidente del Pan. È sostenuto anche dal progressista Prd e dal Movimento dei cittadini, un amalgama di diverse posizioni ideologiche che potrebbero però unificarsi sotto la spinta delle emozioni, vero motore della scelta del voto dei messicani.

In attesa di vedere almeno quattro candidati indipendenti nell’arena politica, è certo che il lavoro del futuro presidente del Messico sarà imponente. Corruzione e violenza a parte, c’è da riformare il sistema giudiziario. Renderlo indipendente dall’esecutivo, un legame che ha spesso impedito l’avvio di indagini che coinvolgevano il cuore del sistema nel giro di mazzette. Il futuro capo di Stato messicano erediterà anche le conseguenze di un decreto, convertito in legge dal Parlamento, che affida all’esercito i compiti della polizia. Il provvedimento puntava a rendere definitivo un ruolo che già adesso i soldati svolgono nella guerra ai cartelli: possono intervenire autonomamente davanti a ogni manifestazione che attenta alla sicurezza dello Stato. Appare evidente il rischio, come hanno sottolineato molti giuristi e responsabili di associazioni sui diritti umani, che ogni forma di protesta possa essere repressa perché giudicata pericolosa.

La delega dell’ordine pubblico ai militari e all’intelligence ripropone il tema della legalità. Nel febbraio scorso un gruppo di giornalisti e scrittori, oltre a un folto gruppo di parlamentari dell’opposizione, denunciò pubblicamente l’uso di un software che lo Stato aveva acquistato per combattere il narcotraffico e la criminalità organizzata. Si chiama Pegasus ed è fabbricato dagli israeliani. Basta un messaggio su WhatApps, anche da parte di un amico ignaro, per scaricare all’interno dello smartphone del destinatario un sistema di sorveglianza che copia tutti i dati della memoria ed è in grado di controllare le mail e registrare le coordinate del Gps che indicano la sua posizione. Il software è stato ritrovato in molti cellulari di giornalisti assassinati in pieno giorno e davanti a decine di testimoni. Omicidi facili, rimasti impuniti perché non sono mai stati individuati gli autori. Lo stesso Pegasus è stato rintracciato nei telefonini di alcuni parlamentari. Questo ha provocato una dura protesta. Il governo è stato invitato a fare chiarezza. Ma non ha fornito una risposta convincente. Ha ammesso di aver acquistato (80 mila dollari) il software, ma ha negato che fosse stato utilizzato anche per spiare gli avversari, così come previsto dal protocollo di compravendita sottoscritto da Nieto. È facile pensare che Pagasus sia finito nella mani sbagliate e sia stato usato in modo improprio. Magari dagli stessi cartelli, veri mandanti degli omicidi eccellenti che hanno messo a lutto il sistema di informazione in Messico.

La Colombia va al voto l’11 marzo per le elezioni legislative e il successivo 27 per eleggere il nuovo presidente. Si tratta di appuntamenti decisivi per il futuro del Paese. Chiunque arriverà al potere dovrà confrontarsi con il processo di pace che ha chiuso un conflitto durato 52 anni. L’accordo con le Farc dell’ottobre 2016 a L’Avana è l’atto politico più rilevante di questo secolo. Ci hanno provato in tanti ma solo Juan Manuel Santos ci è riuscito. È stato insignito del Nobel per la Pace: un premio che gli ha tuttavia attirato molte critiche, perché considerato strumentale. Il segno più tangibile di quanto la guerriglia e il conflitto che hanno insanguinato per mezzo secolo la Colombia pesino ancora su questa società tradizionalmente conservatrice. Il referendum che doveva sancire l’accordo fu bocciato dalla popolazione. Solo un nuovo voto del Parlamento lo ratificò, sebbene tra mille polemiche. La consultazione segnò ancora una volta la spaccatura di un Paese incapace di superare il grande trauma del “Bogotazo”, l’inizio di tutto. L’omicidio di Jorge Eliécer Gaitán, il candidato liberale alla presidenza, avvenuto il 9 aprile del 1948, scatenò un’ondata di violenza che durò settimane e venne soffocata dai militari. La nascita delle Farc risale a quei giorni, quando la scelta della lotta armata fu quasi obbligata per gli oppositori costretti alla fuga o alla clandestinità. Ma le migliaia di morti, di sequestri, di vere mattanze portate avanti dalla guerriglia e dagli squadroni paramilitari, finirono per coltivare, tra rancori e prevenzioni, lo spirito di vendetta.

Persino ora molti parlamentari conservatori faticano ad accettare la sola idea che venti ex membri delle Farc siedano, per diritto, sugli scranni del Senato e della Camera. Il massimo dirigente della guerriglia, Rodrigo Londoño, alias Timochenko, aspira alla presidenza. Difficile pensare a un suo successo. Ma il solo fatto che le vecchie Farc, ora trasformate in partito con lo stesso acronimo, Fuerzas alternativa revolucionaria del Común, facciano campagna elettorale e si aggirino per il Paese rappresenta un momento storico nella Colombia moderna. Portare a compimento un processo di reinserimento sociale di 7 mila ex combattenti è una scommessa su cui si gioca il futuro del Paese. Ci sono forze che si oppongono con la violenza all’intesa. Gli stessi squadroni paramilitari, nati, sciolti e sempre rinati, che l’anno appena trascorso hanno ucciso 120 persone. Leader contadini, capi delle comunità rurali, esponenti della società civile e attivisti umanitari. Gestire il trapasso sarà essenziale per il futuro presidente.

Dopo un anno e mezzo di pre-campagna elettorale, l’arena politica si è concentrata su sei personaggi. Rappresentano le grandi famiglie del Paese, quelle che ne hanno sempre deciso l’assetto istituzionale. I sondaggi prefigurano un panorama molto frammentato, tra favorevoli e contrari all’accordo di pace e la necessità di formare delle alleanze in vista del ballottaggio.

Nel blocco più conservatore spiccano tre candidati: Germán Vargas, Iván Duque e Marta Lucía Ramírez. Il primo, dirigente di Cambio Radical, fu vicepresidente di Santos fino al marzo scorso. Duque è l’aspirante del centro Democratico, la formazione della destra di Uribe, che dovrà tuttavia allearsi con l’ex presidente Andrés Pastrana e chiedere l’appoggio della Ramírez, ex ministra e leader del partito Conservatore.

L’ex sindaco di Bogotà Gustavo Pedro, che in un sistema politico tradizionale occuperebbe le posizioni di sinistra, appare tra i favoriti. Il suo movimento sta cercando appoggi in altri settori. Non ha escluso di inserire tra le sue liste anche Humberto de la Calle, il capo delegazione governativa nelle trattative con le Farc a Cuba. Ma il rappresentante del Partito Liberale si è mostrato prudente. Resta in attesa di vedere come si muoveranno le pedine sulla scacchiera. Il suo progetto politico punta a stemperare il crescente sdegno dei colombiani e la sfiducia nelle istituzioni con una lotta aperta alla corruzione.

Il Venezuela dovrebbe votare entro la fine dell’anno. Ma con Maduro le scadenze elettorali non hanno un gran valore. La gravissima crisi alimentare e sanitaria dovrebbe sancire una sconfitta del delfino di Hugo Chávez. Tutto resta in alto mare e non è detto che i prossimi dodici mesi possano restituire un po’ di fiato ad un regime in affanno. Per garantirsi il successo, il presidente ha eliminato dal panorama politico i tre principali partiti dell’opposizione. Che non hanno partecipato alle ultime elezioni amministrative e hanno boicottato la tornata legislativa.

La Mud, il blocco dei 21 partiti contrari al regime di Maduro, è in forte difficoltà. Si è divisa e nei fatti è sciolta. Un lungo comunicato di autocritica è stato reso noto il 28 dicembre scorso. I leader della Mesa de unidad demócratica hanno ammesso i loro sbagli, i loro personalismi e l’incapacità di guidare quattro mesi di proteste in cui sono morte 127 persone. La mancanza di un progetto politico ha pesato su una sconfitta che Maduro ha facilmente messo in ridicolo. Attenderà il periodo migliore e poi si assicurerà una vittoria.