Alti funzionari del Tesoro ed ex ministri: ecco chi rischia richieste di risarcimenti record per l'affair Morgan Stanley

Statistiche? «Mi spiace, non ne abbiamo». Il risarcimento danni più elevato mai inflitto a un dipendente pubblico? «Purtroppo non la posso aiutare. La Corte dei Conti non conserva questo genere di contabilità. E poi ormai il sistema è su base regionale; è più difficile elaborare i dati». Nei giorni scorsi, a chi poneva queste domande, il portavoce della Corte dei Conti era costretto a rispondere senza fornire alcun suggerimento. L’organo che giudica il comportamento dei funzionari dello Stato e li condanna a risarcire i danni erariali dovuti ai loro comportamenti diffonde poche statistiche sulla propria attività. Non ci vuole molto, però, per misurare l’esplosività di un procedimento che si sta per abbattere sul Tesoro. La procura della Corte dei Conti del Lazio ha infatti terminato l’attività istruttoria sui prodotti finanziari ad alto rischio, chiamati derivati, che il governo aveva sottoscritto in passato con la banca d’affari Morgan Stanley.

A meno di sorprese, in tempi brevi è attesa una richiesta di risarcimento complessiva da 4 miliardi di euro alla banca americana e a quattro dirigenti ed ex dirigenti del Tesoro che hanno avuto un ruolo nella vicenda. Una richiesta record, probabilmente, anche se dati ufficiali in tal senso mancano. I numeri li ha anticipati il quotidiano La Repubblica. A Morgan Stanley verranno contestati danni per 2,8 miliardi. Ma le cifre che destano maggiore sensazione sono quelle richieste alle singole persone.

I PROTAGONISTI SOTTO ACCUSA

A Maria Cannata, attuale responsabile del dipartimento debito pubblico del Tesoro, stando ai documenti pubblicati dal quotidiano la procura chiederà un risarcimento da un miliardo di euro; a Vincenzo La Via, che del Tesoro è direttore generale, di 112 milioni. Richieste consistenti sono attese anche per due predecessori di La Via, che negli anni passati hanno ricoperto entrambi prima l’incarico di direttore generale, poi quello di ministro dell’Economia. Il primo è Domenico Siniscalco, a cui verranno contestati danni per 89 milioni; il secondo Vittorio Grilli, citato per 23 milioni.

Va subito detto che la Corte dei Conti funziona in modo analogo alla giustizia ordinaria. Le richieste della procura verranno valutate da un collegio di magistrati della Corte, che dovranno farsi un loro giudizio. Non è raro che, al termine del procedimento, o in appello, le sentenze ribaltino le tesi dell’accusa. Ogni responsabilità dovrà essere provata. Anzi: proprio il dibattimento potrebbe fornire l’occasione per far luce sui dubbi che l’attività in derivati del Tesoro ha fatto nascere in questi anni, man mano che si sono materializzate le perdite originate dai contratti del passato.

Nonostante di nuovi non ne vengano fatti da tempo, negli anni dal 2013 al 2016 il governo è stato costretto a pagare alle banche un saldo netto d’interessi sui derivati di 13,7 miliardi di euro, con un picco negativo di 4,2 miliardi proprio l’anno scorso. Non basta. Nella gestione dei derivati rientrano altre voci che non sono interessi ma che, ugualmente, gonfiano l’indebitamento dello Stato rilevato dall’Eurostat, l’ufficio statistico europeo. Ebbene, se si sommano queste voci ai 13,7 miliardi di spese nette per interessi, l’impatto negativo dei derivati sull’indebitamento dell’Italia sale, soltanto nel periodo 2013-2016, a un totale di circa 24 miliardi. E ancora: i derivati in essere sono destinati a generare in futuro altre ingenti perdite. Il loro valore di mercato a fine 2016, reso noto dal ministro Pier Carlo Padoan, era infatti negativo per 37,8 miliardi: perdite potenziali che, in buona parte, si tradurranno certamente in un flusso negativo di interessi da pagare alle banche. Il senso di tutti questi dati, dunque, è univoco: qualcosa, nelle operazioni ad alto rischio condotte dal Tesoro, non ha funzionato.

I contratti con Morgan Stanley finiti sotto la lente della Corte sono stati un segreto custodito per anni, fino a quando, in febbraio, L’Espresso li ha pubblicati per la prima volta.
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Per capire come si è arrivati a un caso tanto clamoroso, ne abbiamo sottoposto le caratteristiche agli esperti di una società di consulenza finanziaria indipendente, la Ifa Consulting di Verona. Un nome conosciuto: da tempo aiuta enti locali e istituzioni finanziarie nell’analisi e nella valutazione degli strumenti derivati e nel 2015 è stata chiamata a testimoniare nel corso dell’indagine conoscitiva che la Commissione Finanze della Camera ha dedicato a quelli fatti dal Tesoro.

I contratti oggetto del giudizio della Corte sono quattro. Ecco un esempio di “Cross currency swap” firmato a fine 1999, che impegna le parti a scambiarsi un pre-determinato flusso di pagamenti annui, per un certo periodo di anni.

TUTTE LE CIFRE DEL DISASTRO

In questo caso particolare, il Tesoro incassa dalla banca sterline e versa alla banca euro. Perché? Il motivo va ricercato in un prestito obbligazionario in sterline che il Tesoro aveva collocato in precedenza agli investitori. Se la moneta britannica si fosse rivalutata, per lo Stato pagare quegli interessi sarebbe stato più oneroso. Di qui lo scambio, in inglese “swap”: il Tesoro incassa da Morgan Stanley annualmente una certa somma in sterline, che gli serve per pagare gli interessi del prestito; in cambio versa alla banca una somma predeterminata in euro. Può sembrare un’operazione astrusa, ma l’effetto è semplice: grazie ad essa, il Tesoro trasforma un debito in sterline in un debito in euro, mettendosi al riparo dai rischi legati all’andamento del mercato dei cambi.

Nel pacchetto di contratti sotto accusa, i “Cross currency swap” sono due, il primo del 1999 e il secondo del 2002. Fin qui niente di strano, se non fosse che l’architettura di entrambi comprende delle opzioni, chiamate “swaption”, che rendono tutto più rischioso. Guardiamo ancora il primo. Il derivato del 1999 prevede infatti che molti anni più tardi rispetto alla firma, nel 2014, Morgan Stanley possa decidere di attivare un ulteriore swap, questa volta legato ai tassi d’interesse, a condizioni dettate fin dall’inizio. Le condizioni sono le seguenti: ogni anno il Tesoro dovrà versare alla banca il 5 per cento di un miliardo di sterline, e cioè 50 milioni di sterline, mentre Morgan Stanley pagherà al governo una cifra variabile, determinata applicando il tasso Libor alla stessa cifra di un miliardo di sterline.

I punti a cui fare attenzione sono diversi. Il primo: la decisione di attivare o meno lo swap con partenza nel 2014 è in mano alla banca, che ha acquistato dal Tesoro una specifica opzione per avere questa possibilità. Ovviamente, lo farà soltanto se al momento giusto le condizioni di mercato lo renderanno conveniente e sarà lei a guadagnarci; altrimenti la lascerà cadere. Il secondo punto: se Morgan Stanley eserciterà l’opzione, il nuovo contratto obbligherà il Tesoro a pagare per ben venticinque anni, dal 2014 al 2039.

Nicola Benini, amministratore delegato di Ifa Consulting, invita a considerare queste scadenze: «Nel 1999 viene firmato un contratto che dopo quindici anni darà alla banca la possibilità di decidere se il Tesoro dovrà pagare per altri venticinque anni ancora, e cioè fino al 2039». Un’opzione di questo genere è una scommessa finanziaria: vendendola, il Tesoro ha puntato implicitamente sul fatto che il tasso Libor molti anni più tardi sarebbe stato superiore al 5 per cento. La storia dimostra che l’assunto era sbagliato: dal 2014 il tasso non è mai stato sopra i livelli che avrebbero reso l’operazione profittevole e, anzi, il Libor vale meno di un punto percentuale ormai da mesi. Ma il punto critico non è prevedere che cosa accadrà, un’attività che Benini definisce «illusoria».

È piuttosto l’imprevedibilità stessa dell’esito di una scommessa del genere in un tempo così lontano, e la variabilità dei flussi di pagamento a cui può dare origine. Dice Benini: «Lo Stato dovrebbe agire sempre come un padre di famiglia. E qui siamo in presenza di un genitore che firma un contratto che, se le cose andranno male, obbligherà suo figlio a iniziare a pagare un debito che ricadrà anche sulle spalle del nipote, due generazioni più tardi». Anche perché, nel 2003 le condizioni dell’opzione sono state rinegoziate, spostando tutto ancora più in là. Il momento dell’esercizio è slittato dal 2014 al 2028; la fine ultima del contratto addirittura al 2058, cinquantacinque anni più tardi. Quando nessuno dei dirigenti del Tesoro che nel 2003 l’hanno firmato sarà, presumibilmente, ancora al lavoro.

SE A SCOMMETTERE E' LO STATO
I derivati sono strumenti finanziari complessi, che richiedono l’utilizzo di modelli di valutazione per quantificarne sia gli effetti economici (da cui dipende il valore attuale) sia quelli finanziari (i flussi futuri dei pagamenti). Esigono, inoltre, un attento monitoraggio. Stando a quanto trapelato finora, la procura della Corte dei Conti avrebbe fatto diverse contestazioni su questo punto. Per capire perché può essere d’aiuto il grafico della pagina a destra, dove vengono riportati i risultati che si ottengono applicando il modello di calcolo elaborato da John Hull e Alan White a un altro dei derivati del pacchetto Morgan Stanley. Si tratta nuovamente di un’opzione “swaption” che, se esercitata, genera uno swap sui tassi d’interesse. Come si legge nella scheda, nel 2004 per vendere e poi rinegoziare l’opzione il Tesoro incassa 47 milioni. Se l’anno successivo la banca deciderà che l’opzione non è conveniente e la lascerà cadere, quei 47 milioni si tradurranno in un profitto per lo Stato. Il modello di Hull e White dice che questo sarebbe potuto avvenire nel 60 per cento dei casi.

Può sembrare una probabilità discreta ma quello che andrebbe considerato è il rischio che, invece, l’andamento dei tassi induca Morgan Stanley a esercitare l’opzione. Come, in realtà, è avvenuto. Il modello dice che le perdite per il Tesoro possono farsi consistenti, superando la ragguardevole cifra di 1,1 miliardi in un 5 per cento dei casi. Nella scheda non è riportato, ma c’è uno scenario ancora peggiore: in un caso su cento, infatti, sullo swap nato dall’opzione del 2004 il Tesoro avrebbe potuto pagare interessi negativi per 2,2 miliardi. Non manca una postilla. Sui mercati ogni rischio ha un prezzo. Nel caso della swaption del 2004, il Tesoro se l’è assunto incassando un premio di 47 milioni. Ifa Consulting, però, ha calcolato che quel prezzo non era congruo in rapporto ai rischi. Valutando le condizioni di mercato dell’epoca, infatti, è possibile sostenere che un premio adeguato sarebbe stato compreso in una gamma tra 150 e 200 milioni. Può sembrare poca cosa, rispetto alle mega perdite che il contratto genererà nella realtà, e che vedremo a breve. Ma resta la curiosità su quali modelli di valutazione abbia usato il Tesoro per accontentarsi di un premio più basso.

Ai fini del giudizio che verrà, tuttavia, queste considerazioni passano in secondo piano rispetto all’aspetto più clamoroso dell’affaire Morgan Stanley, ormai ben noto. I contratti con la banca, infatti, erano regolati da un accordo quadro del 1994, che comprendeva una clausola particolare. Stabiliva che l’istituto aveva il diritto di esigere l’estinzione anticipata di tutti i derivati se il valore di mercato degli stessi fosse stato negativo per lo Stato italiano e avesse superato una determinata soglia di attenzione. La soglia era legata al rating della Repubblica Italiana e nel tempo aveva oscillato fra 75 e 50 milioni di dollari.
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Nel 2007 era già stata superata da anni, quando i banchieri di Morgan Stanley chiedono di estendere la clausola a un contratto stipulato da una società pubblica, la Infrastrutture Spa, che il Tesoro vuole assorbire. È soltanto in quel momento, racconterà Maria Cannata, che i dirigenti del Tesoro si rendono conto della sua esistenza. Di fatto, i contratti descritti in queste pagine sono stati in gran parte firmati o rinegoziati quando la soglia critica era stata già superata, dando alla banca la possibilità di chiuderli immediatamente, incassando subito il loro valore di mercato. Nicola Benini osserva che il superamento della soglia indicata dalla clausola rendeva il debito nei confronti di Morgan Stanley «non più potenziale, ma certo ed esigibile». Se fosse accaduto a un privato, sarebbe scattato l’obbligo di iscriverlo in bilancio, o quanto meno di accantonare un fondo per fronteggiarlo. Lo Stato non ha ritenuto di farlo.

La decisione di Morgan Stanley di esercitare la clausola arriverà a fine 2011, quando il governo Monti sarà costretto a versarle 3,1 miliardi. Ricordate il “Cross currency swap” del 1999 con opzione annessa? Ci costerà 445 milioni. E l’altro swap, nato dall’opzione del 2004 che fruttò alle casse dello Stato un premio di 47 milioni? Bene, per chiuderlo il Tesoro verserà quasi 1,2 miliardi.