Il tema delle notizie false in rete è diventato centrale nella campagna elettorale. Ma se ne sta ingigantendo il peso. Piuttosto la politica dovrebbe preoccuparsi di come il nostro paese non abbia gli strumenti tecnologici e le conoscenze per fermare le infiltrazioni

L’Italia sta per affrontare la prima campagna elettorale nazionale della “cyber Guerra Fredda” che Hillary Clinton e l’establishment liberal vedono in corso tra Stati Uniti e Russia. E no, non è pronta a reggerne l’urto. Non tanto perché a decidere il prossimo inquilino di Palazzo Chigi potrebbe essere Vladimir Putin, tramite i suoi emissari hacker, o le proprie fabbriche di disinformazione: vincere le elezioni, specie altrui, è più complicato di rendere un meme “virale”, e non ci sono prove che, senza la propaganda del Cremlino, Donald Trump o Brexit non avrebbero vinto ugualmente.

È piuttosto la nostra incapacità di maneggiare l’arsenale che le indagini statunitensi hanno rivelato a preoccupare, così come l’ampiezza del fronte geopolitico in cui è stato dispiegato. Grazie ai meccanismi di personalizzazione dei social media, e alla marea sterminata di dati di cui dispongono, i russi hanno raggiunto milioni di americani con messaggi pubblicitari mirati per ciascun elettore, infilando il coltello proprio nelle piaghe già aperte che dividono il paese.

Hanno creato e popolato eventi e proteste pro e contro i diritti dei migranti, delle comunità afroamericane e dei poliziotti che ne abusano, stuzzicando insieme gli istinti dei difensori dei diritti Lgbt e dei fondamentalisti cristiani che preferiscono - con un “mi piace” - Gesù-Trump a Hillary-Satana. Hanno diffuso “fake news” clamorose, come l’idea che l’ex candidato repubblicano John McCain abbia creato Isis o che Barack Obama fosse un agente Cia, ma anche prelevato materiale compromettente tramite hacking, per poi diffonderlo in rete e colpire i candidati sgraditi. È accaduto per il Comitato dei Democratici negli Usa, ma anche per la campagna di Emmanuel Macron in Francia; materiale che Marine Le Pen non ha perso l’occasione di menzionare negli infuocati testa a testa prima del voto, nonostante contenesse al suo interno svariate menzogne costruite ad arte.

Con potenti cyberattacchi hanno compromesso infrastrutture critiche, in Ucraina ed Estonia. In Germania, i russi - ma anche l’alt right americana - hanno spinto gli estremisti di destra dell’AfD, tramite reti di profili automatizzati, o “botnet”, intente a ripeterne ancora e ancora i contenuti: tra i principali, instillare il dubbio di frodi elettorali. Tredicimila di quei “bot” sono stati arruolati anche nella battaglia per portare la Gran Bretagna fuori dall’Unione europea, generando “cascate” di propaganda istantanea che scompare tanto rapidamente quanto appare, una polemica alla volta.

I guastatori vengono richiamati in servizio in ogni circostanza si possa spaccare l’Europa: se c’è un attentato terroristico, pubblicano contenuti islamofobi e razzisti; se si vota in Catalogna per l’autonomia, retwittano post di Julian Assange e di altri influencer che cercano di «screditare le autorità politiche e legali spagnole», come ha scritto Politico. In Svezia cercano di generare sfiducia nella capacità del governo di costruire politiche pubbliche dotate di consenso. In Bulgaria, di eleggere un candidato gradito a Putin diffondendo sondaggi errati. In Olanda e Austria, di interferire con il processo elettorale.

È questo il bersaglio grosso, dice all’Espresso il vicedirettore della Sunlight Foundation, Alex Howard: la «fiducia del pubblico» nell’integrità stessa delle elezioni democratiche. «Molti», scrive di conseguenza Bloomberg, «temono possibili macchinazioni russe» anche in quelle italiane. E non si capisce perché il nostro paese dovrebbe esserne esente. Già per il referendum dello scorso 4 dicembre, che ha segnato la carriera politica di Matteo Renzi, il sito Pagella Politica riporta secondo una propria analisi che «la singola notizia sul tema più condivisa sui social network era falsa».

Non solo: «Nella classifica dei primi dieci link per coinvolgimento da parte degli utenti, le notizie false o scorrette pareggiano quelle vere per cinque a cinque». Lo stesso Renzi si è lamentato del proliferare di “fake news” più volte, già da presidente del Consiglio, discutendone lo scorso novembre con i leader europei e Obama, prima di affidare a La Stampa l’idea che siano un’arma del Movimento Cinque Stelle contro il Pd. Ma è una visione riduttiva, che ingigantisce a sproposito il legame tra siti della galassia “grillina” - come TzeTze e La Fucina - e propaganda russa evidenziato in inchieste in Italia e all’estero. E dimentica che la questione è strutturale: il lato oscuro delle campagne politiche digitali è insieme più ristretto e più ampio. Più ristretto perché, come spiega il docente di Scienze Politiche e Milano, Luigi Curini, «a oggi non abbiamo alcuno studio scientifico che mostra che le fake news siano in grado di modificare il comportamento di voto di una persona, spingendolo a scegliere in modo diverso rispetto a quanto avrebbe fatto altrimenti».

Ma più ampio, perché a fare ricorso alla propaganda non sono solo i “populisti”. «La fake news è propaganda», dice Curini, «e la propaganda è sempre stata utilizzata nel corso della storia da tutte le forze politiche, di tutto lo schieramento ideologico». Governi inclusi. “Oscuro” poi va inteso alla lettera, perché il problema non è rimuovere le bugie da Internet o criminalizzarle - operazioni che mal si addicono a un contesto democratico - quanto piuttosto iniettare un minimo sindacale di trasparenza su un mezzo, i social media, sempre più centrale per la vita politica di un paese avanzato.

Le inchieste delle autorità Usa hanno costretto i gestori delle piattaforme digitali a invertire finalmente la rotta, e aprire almeno in parte i propri archivi, cercandovi contenuti illeciti, provenienti da profili falsi o automatici, e promettendo svariate contromisure che consentano per esempio agli utenti-cittadini di sapere chi paga un determinato messaggio pubblicitario, quanti lo vedono e secondo quali criteri di personalizzazione. Ma difficile basti l’autoregolamentazione su Facebook, Twitter e Google: servono regole chiare, e valide per tutti. Insomma, serve una legge laddove oggi c’è, per una volta davvero, il “far west”. Vale per gli Stati Uniti, ma anche per l’Italia.

Non a caso il segretario generale del Garante per la Privacy, Giuseppe Busia, ha scritto in un recente intervento sul Corriere della Sera che una regolamentazione per le campagne elettorali esiste, ma «è stata scritta in un’epoca ormai remota, guardando soprattutto alla televisione» e non al web, senza considerare dunque «il potenziale dirompente dell’uso dei dati personali e della profilazione per la realizzazione di campagne mirate». Busia parla di una improbabile “par condicio 2.0”, ma non c’è ragione per costringere i cittadini dovrebbero a subire in rete un livello di opacità non consentito ai messaggi politici diffusi su ogni altro mezzo di comunicazione di massa. Anche il silenzio elettorale andrebbe rivisto. Secondo Dino Amenduni, dell’agenzia di comunicazione Proforma, su questo il web è «un territorio vergine».

Tradotto, significa che «non puoi fare uno spot tv il giorno prima delle elezioni, ma puoi fare un post sponsorizzato a urne aperte». Bisogna intervenire. Senza allarmismi, però. «Ci sono tre decadi di ricerche in comunicazione politica sulla limitata efficacia delle pubblicità politiche in termini elettorali», dice Daniel Kreiss, tra i massimi esperti della materia. «E, anche quando ce l’hanno, è solo sotto precise e ristrette condizioni». La prima, prosegue, è «che si tratti di elezioni di scarso rilievo» - non le politiche, insomma. Anche Cristian Vaccari, docente alla Royal Holloway di Londra, ritiene che la questione “dark ads” - questa la buzzword adoperata per i messaggi politici visibili al bersaglio, ma invisibili a tutti gli altri - vada contestualizzata e valutata nei suoi aspetti di lungo periodo: «Dagli studi sui comportamenti di voto», risponde, «sappiamo che un singolo messaggio di per sé ha probabilità quasi nulle di modificare opinioni e comportamenti».

Conta l’insieme degli slogan, e buona parte non giunge da Internet: «la quantità di messaggi di disinformazione e propaganda che ha raggiunto la popolazione americana nel 2016, ancorché elevata in valore assoluto, è molto bassa se confrontata con la mole enorme di contenuti generati dai mass media e dai candidati stessi». Non è solo un problema russo, oggi, o cinese, domani; per i 100 mila dollari spesi su Facebook dai troll del Cremlino, ci sono gli 81 milioni investiti da Clinton e Trump. E peraltro, ricorda Vaccari, «l’impatto negativo della disinformazione in rete potrebbe essere inferiore in un paese come l’Italia, dove la qualità dell’informazione fornita da molti media tradizionali, ovviamente non tutti, è quanto meno discutibile». A mancare, insomma, potrebbe essere un qualunque terreno comune su cui fondare il dibattito pubblico, così che ciascuno finisce per disporre di una propria realtà. E questo, conclude lo scienziato politico, «rappresenta un rischio maggiore dello spostamento di qualche voto a favore di un partito o a sfavore di un altro».