Con la fine della legislatura comincia l’età della nebbia. E all'orizzonte, anche a causa della legge elettorale, non si vedono programmi, coalizioni e leadership
Mancano pochi mesi alle prossime elezioni politiche. E la campagna elettorale è già iniziata da tempo. Anche perché le elezioni, nel nostro tempo, non finiscono mai. Lo scorso giugno: le amministrative, in molte città. In particolare, 159 comuni maggiori e 24 capoluoghi. Tra questi: Genova, Palermo, L’Aquila, Padova, Verona.
Quindi, due settimane fa: i referendum per l’autonomia, in Lombardia e in Veneto. E domenica le elezioni regionali in Sicilia. Insomma, da oltre cinque mesi, in Italia si vota. E siamo in campagna elettorale da molto prima.
Da due anni, almeno. Da quando, cioè, si è avviato il percorso della riforma costituzionale, bocciata dagli elettori lo scorso 4 dicembre. Un voto che ha accelerato “l’attesa”. Della resa dei conti. Di Renzi contro tutti. E di tutti contro Renzi. Dei 5 Stelle contro tutti. E di tutti contro i 5 stelle. Salvini e la Lega, Berlusconi e Forza Italia, insomma: i Forza-Leghisti, si candidavano, anch’essi, a governare insieme. Come un tempo. E mentre si votava, l’argomento principale del dibattito politico era, e resta, la legge elettorale. Come avviene, ormai, da quasi trent’anni.
Dal referendum del 1991, quando si passò dalle “preferenze” alla “preferenza”. Seguito dal referendum del 1993, che impresse al sistema elettorale in Italia una svolta maggioritaria. Unica. E da allora, di referendum in referendum, di elezione in elezione, la legge elettorale è rivista più volte. A partire dal Mattarellum, nel 1993. Per passare al Porcellum, nel 2005, alla vigilia delle elezioni politiche. Nelle quali era prevista la vittoria larga dell’Unione di Prodi. Il Porcellum, concepito non per impedire a Prodi di vincere, ma a chiunque. Dunque, anzitutto a Prodi, di governare. Ma la “legge elettorale” ha continuato a evolvere, tra progetti e disegni diversi.
Tratteggiata da attori diversi. In particolare, con un ruolo sempre più determinante e rilevante, la Corte Costituzionale. Perché questo è il costume “Italicum”… D’altra parte, la campagna elettorale, in Italia, non finisce mai. Da anni. Da sempre. Fino ai giorni nostri. Ai mesi nostri. Perché è da mesi che non si discute d’altro. Delle “prossime” elezioni. Delle regole e delle norme con cui si svolgeranno. Da ultimo, degli attori politici che si confronteranno. Per guidare il Paese. Compito arduo, eppure ambìto. E sempre più enigmatico. Perché è difficile capire chi vincerà e, ancor più, chi governerà, dopo il voto… Il prossimo marzo. In fondo, è l’unica “previsione” possibile che mi sento di fare: quella che riguarda il passato. Una prospettiva ardua, che vede gli altri studiosi della materia, spesso, in disaccordo. Anche su questo.
Oggi, tuttavia, l’impresa appare particolarmente ardua.
Anzitutto, perché non è ancora chiaro il funzionamento della nuova legge elettorale. In secondo luogo, perché non è chiaro - non sono chiari - i soggetti che si misureranno. I concorrenti. Partiti, coalizioni, leader.
Facile, o meglio, difficile, renderne conto.
Nel centrosinistra e a sinistra: è difficile parlare di futuro. Sempre di più E più di sempre. Perché da sempre è diviso. Anzitutto il Pd, governato da Renzi, dopo il trionfo delle primarie. Tuttavia, in declino di popolarità personale. Mentre cresce il consenso verso Gentiloni. Che, tuttavia, non è “uomo di partito”. In tempi nei quali un certo grado di populismo, in politica e sulla scena pubblica, è utile e utilizzato da tutti, lui, Gentiloni, marcia in controtendenza. Per scelta e in-capacità personale: è im-populista. Ma, forse, proprio per questa ragione è il leader che, in Italia, ottiene il maggior grado di fiducia fra i cittadini. Al punto da sollevare il sospetto che il suo “impopulismo” sia una scelta. Un po’ populista. Perché lo distingue e distacca dagli altri. Oggi, comunque, nel Pd, Renzi e Gentiloni interpretano due “tipi” diversi e sempre più alternativi. Non è detto che non contribuiscano, anch’essi, a dividere ulteriormente un partito già diviso. Che, nell’ultimo anno si è diviso davvero. Scisso. In seguito all’uscita di Bersani e di altri esponenti, altre componenti della sinistra. Che hanno promosso e costituito Mdp. Un soggetto politico che fatica a crescere. A diventare davvero competitivo. Il suo principale fattore di forza, oggi, è di creare una minaccia per il Pd. La Sinistra che indebolisce il Centro-sinistra. Da sinistra. E “minaccia”, inoltre, di non allearsi con il Pd. Anche se - e dove - sarebbe necessario, più che utile. Anche a loro. Per conquistare i collegi uninominali. E per “rimediare” alla difficoltà, meglio, l’impossibilità di costruire una maggioranza, dopo il voto. Senza coalizzarsi. Ma con chi?
La nebbia, però, grava anche sulla Destra. Meglio: il Centro-destra. Il Forza-leghismo, insieme ai Fratelli d’Italia, ormai, supera ampiamente il 30 per cento. Ma ha difficoltà a esprimere una leadership condivisa. Perché Berlusconi non può (ancora e per ora) candidarsi. E, comunque, non potrebbe accettare che il Capo della Coalizione venisse espresso dalla Lega. Tanto più (tanto meno) da Salvini. La Lega, peraltro, appare a sua volta “confusa”. Almeno: agli occhi degli elettori. I suoi stessi elettori. Perché ormai è tante cose diverse sotto lo stesso tetto. Che non è più il Nord. Oggi, anche anagraficamente, è Lega - e basta. Senza aggettivi e senza qualifiche territoriali. La Padania, lo stesso Nord, non vengono evocati per definirsi. D’altronde, de-finire, significa de-limitare. Tracciare confini. E la Lega di Salvini i confini li ha scavalcati e perfino cancellati, comunque: elusi. Da tempo. Ispirato dalla sua amica Marine Le Pen, Salvini ha, di fatto, promosso e imposto una Lega Nazionale. E personale. Non per caso, nel Centro-Sud si presenta come Noi con Salvini. Come Forza Italia, che, fin dall’inizio, non ha mai avuto bisogno di inserire nome e immagine del leader nel marchio e nella bandiera. Perché, di fatto, leader e partito coincidevano e coincidono. Geneticamente. Archetipo e idealtipo del “partito personale” (come lo ha battezzato Mauro Calise). Il partito del Capo (nella formulazione di Fabio Bordignon). Ma, oggi, lo stesso modello si è riprodotto dovunque. Il Pd di Renzi: PdR. Mentre altri partiti sono cresciuti e si sono eclissati insieme al leader. In particolare l’Italia dei Valori: Ldp. Cioè, Lista di Pietro.
Diverso è il caso del M5s. Per auto definizione: un non-partito. I suoi elettori: non hanno una collocazione precisa, nello spazio politico. Quasi metà: si chiamano fuori. Mentre gli altri si distribuiscono un po’ dovunque. A sinistra, destra. Al centro. Il M5s: un non-partito senza veri leader. Il leader politico, politicamente eletto, è Luigi Di Maio. Ma la figura che riassume e connette ancora gli elettori - amici e nemici - è Beppe Grillo. Anch’egli, personalmente, in-eleggibile. Ma carismatico. Comunque, l’unico a fornire riconoscimento, a rendere riconoscibile un non-partito tanto in-definito rispetto agli altri.
Magari esagero, nel sagomare in modo caricato - se non caricaturale - gli attori che con-dividono e si dividono la scena politica, in Italia. E si preparano a recitare un copione dove gli interrogativi superano le certezze. L’unica certezza, infatti, è che nessun partito, da solo, sarà in grado di governare. Mentre nessuna coalizione tra questi partiti è in grado di formare maggioranze stabili. Perché siamo in un contesto di “minoranze in-comunicanti”.
Tanto più perché è finita, da tempo, l’epoca della fede - in politica. Tant’è vero che, nel 2014, circa il 40 per cento degli elettori ha votato in modo diverso rispetto al 2008.
Ora prevale il disincanto, insieme al distacco. Lo scetticismo politico, più ancora dell’anti-politica. Che, in effetti, è, a sua volta, un’ideologia politica. Oggi, peraltro, gli elettori italiani, come in altri Paesi, esercitano l’attenzione - politica - insieme all’astensione. Che ha raggiunto dimensioni impensabili fino a dieci anni fa. Ma il voto, in questa fase, è divenuto una “possibilità”. Come il “non-voto”. Fra gli elettori è diffusa l’in-decisione. E la scelta se e per chi votare è sempre più dilazionata, spostata sempre più in avanti. Come alle elezioni del 2013. Quando metà degli elettori a inizio campagna elettorale non sapevano se e per chi votare. Mentre il 23 per cento ha deciso solo nell’ultima settimana. E il 13 per cento il giorno stesso del voto.
Così, a 4 mesi dal voto,
non è difficile pre-vedere l’esito del voto. È impossibile. Perché è incerto il “rendimento” dei diversi partiti, delle coalizioni. È incerto se e quali coalizioni si affronteranno. Perché i partiti personali sono imprevedibili, visto che non hanno vincoli ambientali. Perché gli elettori non hanno vincoli di fede e di appartenenza. E l’offerta politica che incontrano è sempre più complessa e instabile. Per questo, dopo le elezioni del 2013, avevo scritto che ogni scadenza elettorale avrebbe costituito “un salto nel voto”. Senza “rete”. Salvo quella che oggi usano tutti, per informarsi e comunicare. Il “digitale”. Marchio del M5s. Ma, soprattutto, “impronta indelebile” di questa stagione elettorale senza colore. Di questa attesa perenne. Di una stabilità politica e istituzionale che verrà. Ovviamente: domani. Perché domani è un altro giorno: chi lo sa...