Il primario di Chirurgia plastica, un chirurgo e una biologa sono accusati di aver eseguito sperimentazioni non autorizzate su quattro pazienti transgender. Le ragazze, come ha raccontato l'Espresso, hanno subito una via crucis di infezioni e malattie. E adesso chiedono giustizia

Avrebbero causato lesioni gravissime, con danni permanenti a quattro loro pazienti operate per la riassegnazione del sesso nel 2011 e 2012: con questa pesante accusa tre medici del Policlinico Umberto I di Roma - il primario di Chirurgia plastica, un chirurgo e una biologa - sono stati rinviati a giudizio dal Gup del tribunale della capitale. Nel corso del procedimento, aperto due anni fa, il reato ipotizzato si è aggravato, passando da colposo a volontario: i tre dottori infatti avrebbero condotto consapevolmente una sperimentazione sulle quattro donne transgender, ma senza acquisire la necessaria autorizzazione da parte dell'Agenzia italiana del farmaco e del Comitato etico dell'ospedale e senza informare adeguatamente le pazienti sui rischi a cui venivano esposte. Per questo reato sono previsti dai 6 ai 12 anni di carcere.

Le quattro donne transgender sono state operate con una tecnica innovativa, non presente nei protocolli ufficiali di intervento di riassegnazione del sesso. Prevede tre fasi: nella prima si preleva il tessuto gengivale dalla bocca della paziente, successivamente il materiale biologico viene coltivato in laboratorio, per essere infine innestato per formare il canale della nuova vagina.

Il problema è che all'Umberto I questa tecnica era stata sperimentata in precedenza - con successo - solo su tre donne: pazienti nate biologicamente donne, che a causa di una rara sindrome (la Mayer Rokitanski Kuster Hauser) non avevano sviluppato adeguatamente la vagina. Tra gli imputati c'è infatti anche la direttrice del laboratorio di biologia dell'Umberto I, che aveva già eseguito la coltivazione delle cellule per le tre donne, e successivamente lo ha fatto anche per le pazienti transgender: insieme al medico che ha poi eseguito le operazioni, e al primario che le ha autorizzate, avrebbe consapevolmente applicato una tecnica sperimentale «accettando il rischio - recita la richiesta di rinvio a giudizio del pm - dell'evento lesivo verificatosi».

LA DIFESA DEI MEDICI: DA NOI NESSUN DOLO
Le quattro donne hanno cominciato subito, poche settimane dopo gli interventi di innesto del nuovo tessuto nella vagina, a manifestare gravi problemi: dolori continui, fistole, infezioni, fino a maturare un «indebolimento permanente dell'organo neo vaginale», praticamente inutilizzabile per una normale attività sessuale.

Nelle proprie memorie difensive, già in sede civile, i medici dell'Umberto I avevano spiegato che i danni sarebbero da imputare a una cattiva gestione post-operatoria delle stesse ragazze: scarsa igiene o rapporti sessuali prima di una completa cicatrizzazione, il non aver voluto indossare un divaricatore interno per tutto il tempo consigliato. In sede penale, la biologa si è difesa affermando che si era limitata soltanto ad eseguire delle direttive, mentre il primario e il medico chirurgo hanno affermato che avendo esclusivamente finalità terapeutiche, i loro interventi non possono essere considerati frutto di dolo.

L'ACCUSA: MANCAVANO LE NECESSARIE AUTORIZZAZIONI
Dai capi di imputazione emerge che quando già le prime pazienti avevano ampiamente manifestato forti disagi, si disponeva comunque l'operazione per le successive: e nel frattempo l'equipe dell'Umberto I decantava i presunti successi della nuova tecnica su una prestigiosa rivista medica statunitense.

Quanto alle necessarie autorizzazioni, imprescindibili per qualsiasi sperimentazione, quella al Comitato etico dell'Umberto I è stata richiesta soltanto nel luglio 2013, quasi un anno dopo l'esecuzione dell'ultimo intervento. E l'avvocata delle quattro donne, Alessandra Gracis, ha anche rilevato che né l'Istituto superiore di Sanità né l'Aifa (Agenzia italiana del farmaco) erano stati messi al corrente dell'utilizzo del nuovo tessuto: «È materiale biologico coltivato in laboratorio, quindi ingegnerizzato - spiega - A nostro parere si tratta di una vera e propria sperimentazione di un nuovo farmaco biologico».

«Finalmente le ragazze vedono la giustizia in fondo al tunnel - conclude Gracis, avvocata e anche lei transgender - Ci auguriamo che il sistema sanitario faccia i conti con queste storie e si attrezzi per fornire strutture adeguate e rispettose delle persone che vogliono cambiare sesso. Ideale sarebbe mettere in piedi un unico centro in tutta Italia, specializzato solo su questi tipi di intervento».