Romanzi, film, reality. Così il contagio "cruelty-free" invade la cultura

In letteratura e nel cinema, il filone vegano ha due nature: una è tragica, al confine con il noir, l’altra è filosofica, di denuncia, più vicina al reportage. Nei romanzi del primo tipo, come “La vegetariana” della coreana Han Kang (uscirà per Adelphi il 13 ottobre, tradotto da Milena Zemira Ciccimarra) o come “Il bambino indaco” (Einaudi) di Marco Franzoso, da cui Saverio Costanzo ha tratto il film “Hungry Hearts”, la scelta vegan si trasforma in follia. In queste storie, dove il credo vegano portato all’estremo degenera in anoressia, c’è qualcosa di finale: un’ossessione per la vita che in realtà è un’ossessione di morte, un’ansia di purificazione che diventa rifiuto di tutto, del corpo degli animali come del proprio. “La vegetariana” di Han Kang, meritato Man Booker Prize del 2016, è un romanzo bellissimo, potente e perturbante.

La storia di Yeong-hye viene raccontata all’inizio dal marito (incipit folgorante: «Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante»), poi dal cognato innamorato di lei e poi dalla sorella che va a trovarla in un ospedale psichiatrico. Prima di rifiutare la carne, Yeong-hye rifiuta di portare il reggiseno. La sua scelta vegana equivale alla nudità: è un modo di ribellarsi a un padre e a un marito violento. È un Bartleby che trasporta la sua gentile negazione - «Preferirei di no» - sul fronte alimentare.

Tutto comincia da un sogno. Come nel film di Costanzo (il libro di Franzoso è altrettanto bello, ma sono diversi: l’immaginario onirico appartiene solo al regista, il romanzo invece è secco, composto, per niente visionario). Yeong-hye sogna di essere coperta di sangue di carne macellata. Da lì, pur di non mangiare carne, è disposta a tagliarsi le vene con un coltello durante un pranzo in famiglia. L’unico che capirà la sua dimensione interiore, fatta di piante e libertà, sarà il cognato, ossessionato dal desiderio per lei. Ma quella che riporterà tutto alla realtà sarà la sorella, un personaggio simile al protagonista del libro di Franzoso, che si accorge che sua moglie Isabel sta uccidendo il figlio di pochi mesi, per denutrizione. Sono trame scorrette, ma sguardi intelligenti, che disturbano tanta retorica sul tema.

A questo filone può appartenere persino l’ultimo libro di Fausto Brizzi, “Ho sposato una vegana” (Einaudi), un noir suo malgrado, nonostante il tono da commedia facile. Al di là del rapporto sadomasochista che ne esce (dal romanzo, naturalmente), è inevitabile preoccuparsi per sua moglie. Brizzi la racconta con leggerezza (la parodia di una scelta vegana), ma lei emerge come un personaggio tragico, ossessionato dalla morte. Come gli altri, di Han Kang, Franzoso e Costanzo. I libri del secondo tipo, invece, come “Se niente importa” (Guanda) di Jonathan Safran Foer o “La vita degli animali” (Adelphi) di J. M. Coetzee, che siano in forma di reportage o di romanzo filosofico, sono di denuncia e possono convertire qualunque carnivoro. Quello di Foer racconta così bene le torture agli animali, soprattutto negli allevamenti intensivi, che diventa impossibile mangiare un hamburger senza ricordarsi di quelle pagine. Un percorso inaugurato da docufilm come quel “Super Size Me” di Morgan Spurlock nei panni di se stesso, che già nel 2004 raccontò l’esperimento di tre pasti al giorno in un McDonald per un mese: undici chili in più e organismo intossicato. Sulla stessa scia “Fast Food Nation”, film del 2006 di Richard Linklater, o “Cowspiracy”, del 2014, di Kip Andersen e Keegan Kuhn, sul disastro ambientale provocato dall’industria della carne. L’attesa è ora per “The Founder”, di John Lee Hancock, che uscirà a dicembre negli Usa: la storia dei fratelli McDonald e di Ray Croc che ha acquisito il marchio. Chissà quante polemiche solleverà.