"Il problema non è la repressione: chi uccide o sfigura una donna sa che passerà la vita dietro le sbarre. Ma c'è un discorso di educazione da affrontare per smantellare una cultura machista diffusa". Parla il giudice di Corte d'Appello di Napoli Antonio Lepre.

Le ha dato fuoco dopo averle gettato addosso una miscela di alcol e benzina, folle di gelosia perché lei aveva deciso di lasciarlo. Non si è fermato neppure davanti a quel corpo, florido e rotondo, che accoglieva sua figlia. Per salvare la bimba che aveva in grembo, in un gesto istintivo, lei si è stretta le braccia intorno alla pancia. Così è riuscita a proteggere sua figlia ma non il suo volto, rimasto sfigurato.

Carla Caiazzo aveva appena compiuto 37 anni quando, lo scorso febbraio, l’ex compagno Paolo Pietropaolo ha tentato di ucciderla nella maniera più vigliacca. Da quel giorno sono passati sette mesi e undici dolorose operazioni chirurgiche per tentare di ricostruire un corpo martoriato dalle ustioni.

Per la mamma originaria di Pozzuoli, da allora, è partita una gara di solidarietà. Il suo legale Vincenzo Ilario ha dato vita a una raccolta fondi per pagarle i costosi interventi di chirurgia plastica ai quali si dovrà ancora sottoporre. Mentre il prossimo 22 settembre il Comune di Pozzuoli con l’assessorato alle Politiche Sociali ha organizzato in suo aiuto una serata di beneficenza nel comune napoletano al quale prenderanno parte rappresentanti delle istituzioni e della magistratura.

Carla Caiazzo come Tiziana Cantone, come Sara Di Pietrantonio, come la 13enne di Melito Porto Salvo stuprata per anni dal branco. Ennesima vittima di una sottocultura "machista" che tende a considerare la donna alla stregua di una proprietà e che calpesta volontà, dignità, diritti.

Come spiega il giudice della Corte d’Appello di Napoli Antonio Lepre, che non ha esitato a mettersi in prima linea per manifestare la sua solidarietà alla Caiazzo e che ora lancia un appello affinché l’intera magistratura prenda parte al "dibattito culturale dando il proprio contributo attivo alla campagna contro la violenza sulle donne" spiegando però senza mezzi termini che "il reato di femminicidio non basta".

Cosa può fare la magistratura per tentare di arginare questo problema?
"La magistratura può avere un duplice ruolo: innanzitutto condannare e reprimere con le sentenze. Il problema però è che quando vai a reprimere il danno ormai è fatto. La legge rischia di arrivare troppo tardi, è molto più importante affrontare un percorso di sensibilizzazione che parta da lontano. Dobbiamo stimolare un dibattito che non si risolva sempre e solo con l’introduzione di un nuovo reato. Il reato di femminicidio rischia di non bastare. Si deve iniziare con un'educazione nelle scuole e delle famiglie. Perché il cammino è lunghissimo. Le faccio un esempio concreto: quando siamo in udienza e chiediamo di far passare prima una donna incinta, spesso da parte degli uomini abbiamo reazioni infastidite".

A livello normativo non basta, quindi, inasprire le leggi?
"Credo che sia demagogico. Il problema non è la repressione. E’ proprio questo il nostro ruolo: lottare per far capire che su questo problema non si può fare propaganda. Chi dà fuoco a una ragazza, o chi uccide una donna perché è stato rifiutato, è già consapevole del fatto che rischia di passare la propria vita in carcere. E nonostante questo lo fa ugualmente. Cosa cambia, quindi, con una nuova legge? Stiamo liquidando la questione spaventosa dell’aggressività maschile nei confronti delle donne con formule rassicuranti. Ma il problema è molto più complesso. Non dimentichiamoci che fino a non molti anni fa in Italia esisteva il delitto d’onore".

La prevenzione sociale, dunque, deve uscire dalle aule del Tribunale?
"A livello sociale dobbiamo prendere coscienza che c’è un’aggressività maschile che va contenuta. Dobbiamo farlo capire ai nostri figli maschi. Va loro spiegato che si deve contenere il proprio istinto ad aggredire le donne, anche solo rimproverandoli quando hanno atteggiamenti aggressivi o autoritari nei confronti della madre, delle sorelle. La partecipazione dei magistrati ad eventi fuori dalle aule del Tribunale, per esempio nelle scuole, servirebbe a questo: a dimostrare e a diffondere il concetto che non basta una "normetta" del codice penale a contenere una tragedia".

Se fosse invitato a parlare in una scuola ai ragazzi, cosa direbbe?
"Direi che le conseguenze penali sono conosciute a tutti. Darei quindi come consiglio quello di ascoltarsi e di guardare dentro se stessi e di capire quante volte – e perché - si hanno istinti violenti. Certamente insieme ai magistrati dovrebbero esserci psicologi ed esperti che riescano ad arginare il problema dell’aggressività maschile. Per esempio, insieme allo scultore Paolo La Motta (autore della scultura su "Genny" Cesarano, il ragazzo di 17 anni ucciso nel rione Sanità di Napoli ndr) stiamo creando un'associazione di soli uomini al fine di sensibilizzare e creare un dibattito e una riflessione sul perché persiste questa dilagante violenza maschile nei confronti delle donne che si sta diffondendo. Educare anche al linguaggio, inoltre, è fondamentale. Bisogna far capire che anche una battuta può essere una forma di violenza".