Spazi accessibili. Luoghi per il coworking. ?E nuove forme di solidarietà. Da Seul a Medellín, da Bologna ?a Torino le amministrazioni investono sulla partecipazione dei cittadini e sui beni comuni

In lingua coreana, la parola “jeong” indica il legame affettivo tra individuo e società. Nella cultura locale si tratta di un concetto fondamentale: chi non aiuta la propria comunità con gesti quotidiani disinteressati non ha “jeong” e viene considerato poco altruista. Dunque, non è un caso che oggi Seul sia la capitale mondiale della sharing economy. Tutto comincia nel 2012, quando il sindaco Park Won-soon vara il piano che punta a risolvere i problemi della megalopoli, una delle più popolate del pianeta con oltre 25 milioni di abitanti, attraverso la condivisione di spazi, prodotti, servizi.

Da allora sono nate più di cento startup sostenute dalla giunta metropolitana: parcheggi condominiali aperti al pubblico per ottimizzare gli spazi inutilizzati durante gli orari di ufficio; Kiple, startup che organizza lo scambio di vestiti per bambini; Kozaza, la piattaforma di condivisione di appartamenti che a differenza di Airbnb persegue anche uno scopo sociale: far sentire gli anziani meno soli, facilitando l’affitto delle stanze vuote da parte dei giovani. E incentivare la conservazione degli “hanok”, le abitazioni tradizionali da affittare ai turisti.

LA SECONDA VITA DELLE METROPOLI
Così Seul in pochi anni è diventata il simbolo di un nuovo paradigma, un po’ naïf a prima vista, che però si sta diffondendo nei cinque continenti, da Amsterdam a Medellín, in Colombia, da Copenaghen a Bangalore, in India. Città intelligenti che coinvolgono cittadini, associazioni e piccole imprese per gestire e produrre beni comuni con l’aiuto della tecnologia: parchi, trasporti, attività di assistenza alla persona. Una rivoluzione che costringe le amministrazioni pubbliche a ripensare se stesse.

Dopo lo sviluppo di Airbnb, Uber e TaskRabbit, diventate big company attirando investimenti miliardari a beneficio dei fondatori (privati), adesso l’economia condivisa si appresta a entrare in una fase più sociale. «Oggi il concetto di sharing economy è troppo circoscritto, si limita alle transazioni economiche, nuovi sistemi per fare soldi. Vista così, però, l’economia collaborativa crea più problemi di quanti ne risolva», commenta con “l’Espresso” Julian Agyeman, docente di Pianificazione urbanistica e ambientale alla Tufts University, in Massachusetts.

Fa l’esempio di Airbnb, il professore americano: attirati dai guadagni, i privati acquistano immobili e li cedono in affitto attraverso la piattaforma, invece che con i consueti contratti residenziali. «Di conseguenza il prezzo degli affitti e la domanda di case aumentano, come è successo a San Francisco», aggiunge il professore, che insieme a Duncan McLaren ha scritto il libro “Sharing Cities”, pubblicato dalla casa editrice del Mit di Boston: viaggio attraverso le “città della condivisione” contemporanee, una miniera di buone pratiche. «In giro per il mondo, diverse città stanno sperimentando forme nuove di partecipazione alla gestione della cosa pubblica. Si tratta di una transizione delicata, in cui le vere “sharing city” condividono il potere e l’autorità con i cittadini, creano spazi pubblici accessibili a tutti», prosegue Agyeman.

ITALIA VERSO LA NUOVA LEGGE
In effetti, le autorità cominciano a disciplinare la sharing economy, mercato che entro il 2020 (secondo una recente analisi di Juniper Research) triplicherà gli incassi, fino a 20,4 miliardi di dollari. A inizio giugno la Commissione europea ha pubblicato le linee guida del settore, mettendo in guardia i governi contro barriere e ostacoli, mentre in Italia il Parlamento sta esaminando la proposta di legge che fissa le norme del comparto. Airbnb ha già siglato accordi con le amministrazioni locali in diverse città del mondo, tra cui Milano, Firenze e Roma.

Ad Amsterdam, invece, il sindaco Eberhard van der Laan ha varato un piano per incentivare l’economia collaborativa. La città olandese, infatti, è la capitale europea della condivisione: antesignana del bike sharing (fin dal 1965), è la prima città ad aver disciplinato l’attività di Airbnb, nel 2014, in cambio del pagamento delle imposte sul reddito e della tassa di soggiorno. E ancora, nel 2009 ospitò il primo “repair café”, caffetteria dove trovare attrezzi per riparare vestiti, elettrodomestici, mobili, e in cui incontrare elettricisti, sarte e meccanici pronti a dare una mano. Oggi nella “Venezia del nord” i caffè per le riparazioni sono diventati 15, mentre si affermano piattaforme come Peerby, tramite la quale è possibile prendere e dare in prestito oggetti e utensili della vita quotidiana, una sega elettrica o una griglia per il barbecue.

Di recente Peerby, oggi presente in 20 città tra Europa e Stati Uniti, ha raccolto quasi due milioni di euro con una campagna di crowdfunding.

A migliaia di chilometri di distanza, Medellín fa da apripista in Sudamerica. Trent’anni fa la città colombiana era nota per il cartello di narcotrafficanti, oggi viene citata nel libro “Sharing Cities” come modello di integrazione sociale. Merito del Proyecto Urbano Integral, il piano di sviluppo urbanistico che ruota intorno a Metrocable, la rete di funivie attiva già da qualche anno che collega alcune “comunas”, i quartieri sulle colline fino a ieri malfamati e tagliati fuori dal resto della città. Medellín possiede spazi per il coworking e biblioteche con libero accesso a computer e Internet, mentre il 5 per cento del budget comunale viene gestito con la partecipazione dei cittadini.

IN COMUNE È MEGLIO
Sul fronte delle sharing city, infine, qualcosa si muove anche in Italia, soprattutto a Bologna, Milano e Torino, ai primi tre posti nella classifica Ernst&Young 2016 delle città più smart. Il Comune del capoluogo lombardo ha stanziato 400mila euro per idee in grado di migliorare la città e lanciato un progetto di crowdfunding civico attraverso la piattaforma web Eppela, per sostenere 21 progetti.

A Torino, invece, è nato Living Lab, spazio urbano nel quartiere Campidoglio per mettere alla prova soluzioni tecnologiche condivise tra enti pubblici, partner privati, enti di ricerca e società civile; a Bologna, si sta sperimentando la collaborazione fra cittadini e amministrazione per i beni comuni urbani nell’ambito del progetto “Bologna città collaborativa - CO-Bologna” della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. Finora sono stati siglati oltre 200 patti di collaborazione in campi diversi: manutenzione civica degli spazi urbani, rigenerazione delle periferie, creazione di nuove forme di solidarietà. Sulla spinta di un regolamento varato a Bologna nel 2014, materialmente scritto dall'amministrazione del Comune di Bologna in collaborazione con Labsus, Laboratorio per la sussidarietà. Il testo è stato adottato da circa 90 Comuni in Italia (tra cui recentemente Torino) e circa altri 100 lo stanno per approvare. 

Alla stesura del testo ha partecipato anche Christian Iaione, professore di Diritto pubblico all’Università “Guglielmo Marconi”, a Roma, e direttore di Luiss LabGov, LABoratorio per la GOVernance dei beni comuni. «Si parla sempre più spesso di città intelligenti. Finora è stata una narrazione prevalentemente tecnologica. Ma le vere città intelligenti sono quelle in cui si investe anche sull’intelligenza civica», dice Iaione, che insieme a Gregorio Arena ha curato il libro “L’età della condivisione” (Carocci editore): «Le istituzioni condividono con cittadini, università, privati, associazioni il governo del territorio dando vita a progetti comuni», conclude il professore: «La vera economia collaborativa non è la sharing economy, ma la “pooling economy”».