Pochissime regole. Niente garanzie. Troppe sorprese. ?Da Airbnb a Uber, vengono al pettine i nodi dei servizi offerti da privati su piattaforme on line. Con tanto di class-action

Al risveglio dopo una notte di fine anno passata a divertirsi, il canadese Matt Lindsay ha avuto una brutta sorpresa. Uber gli ha addebitato l’equivalente di 800 euro sulla carta di credito. Lui era un po’ sbronzo, certo, quindi non si è accorto quella notte che l’app di Uber segnalava tariffe dieci volte più alte del normale, per via dell’elevata richiesta. Quasi altrettanto costosa è stata l’esperienza di B. su Couchsurfing: la sua gentile ospite gli ha infatti frugato in casa, mentre lui dormiva, per poi andarsene con tutto ciò che di valore aveva trovato. Ben più tragica è la storia raccontata dal giornalista Zak Stone, avvenuta in una casa affittata in Texas mediante Airbnb: suo padre è morto in giardino, per un albero marcio che gli è caduto in testa.

Sono due esempi, entrambi del 2015, di un fenomeno a cui solo di recente abbiamo cominciato a prendere le misure. Il lato oscuro della sharing economy, a partire dai suoi servizi più famosi, quelli che consentono a persone comuni di guadagnare offrendo una corsa in auto o ospitalità a casa.


Finora sono arrivate alle cronache solo le rivolte dei tassisti contro Uber, in numerose metropoli europee. Ma questa è solo la superficie di un fenomeno che impatta su tutti i lavoratori e sugli stessi utenti dei servizi. Il rischio, in sintesi, è di ritrovarsi in una società con meno garanzie, per tutti: fornitori e consumatori. Di fondo, c’è che questi servizi sovvertono i principi su cui si sono basati finora le loro controparti tradizionali, taxi e hotel in primis, regolati in modo stringente e preciso dalle istituzioni. Uber e Airbnb si presentano infatti come mere piattaforme tecnologiche che mettono in contatto utenti e fornitori di servizi. Siano questi un passaggio in auto, una camera in affitto; o altre cose che la sharing economy sta partorendo a velocità crescente.

 
Ci sono già app che aiutano a trovare baby sitter o guide turistiche, sostituendo le consuete agenzie. In quanto piattaforme di intermediazione, questi servizi sfuggono a molte regole che riguardano sia il lavoro dipendente sia le garanzie da offrire agli utenti.

Il dibattito sul lavoro è ormai maturo negli Stati Uniti, dove molti economisti e giuslavoristi preferiscono ormai chiamare questi servizi “gig economy”, piuttosto che “sharing economy”. Istituiscono un’economia dei lavoretti (“gig”), insomma, e non una della condivisione. Equivale a smascherare un artificio retorico. Il modello economico di questi servizi non si basa infatti tanto sull’idea di condivisione di un bene quanto sull’offerta di lavoro on-demand da parte di una folla di non contrattualizzati. Insiste su questi concetti, per esempio, uno studio di Annette Bernhardt (2014) dell’università della California. Critico è in particolare un rapporto (2015) del Center for American Progress, dove figura tra gli autori il docente di Harvard Lawrence Summers, che ha svolto funzioni pubbliche come economista durante le amministrazioni Clinton e Obama.

Secondo lo studio, il problema si pone quando questi lavori diventano l’unica fonte di ricavo per molte persone, non fornendo loro “benefit” di alcun tipo (pensione, ferie eccetera) né la possibilità di ottenere una tutela a livello sindacale.

I lavoratori di Uber hanno cominciato la rivolta. Negli Stati Uniti parte a giugno 2016 il processo per la class action con cui chiedono di essere contrattualizzati dall’azienda come dipendenti invece che come collaboratori indipendenti. Recenti evidenze sembrano giocare a loro favore. Uno studio dell’istituto di ricerca non profit Data & Society ha scoperto che gli autisti di Uber sono soggetti ai dettami di un potente algoritmo. L’algoritmo comanda l’app usata dagli autisti e li spinge, con messaggi automatici, a prendere corse nei momenti di punta (quando le tariffe sono più alte). Li invita a lavorare alcuni giorni e non altri, a migliorare il proprio punteggio (votato dai clienti) offrendo snack e acqua; invia sondaggi con cui gli autisti devono comunicare in quali giorni intendono lavorare nei mesi successivi. Gli autisti disobbedienti alle richieste rischiano di essere espulsi.

L’altro fronte critico riguarda la sicurezza per i consumatori. Uber passa al vaglio i candidati autisti, ma il semplice fatto di avere ampliato la platea di chi offre questi servizi può aumentare i rischi. A San Francisco nel 2013 un autista di Uber ha investito una bambina di otto anni. L’azienda, dopo un’iniziale resistenza, ha accettato di risarcire la famiglia. «In qualità di utenti percepiamo questi servizi come una “scatola nera”. Ben poco trasparente. Il meccanismo che determina il prezzo, cioè l’algoritmo, ci è sconosciuto e la garanzia della qualità del servizio è tutta nel brand e in come questo si comunica», riassume Giovanni Boccia Artieri, sociologo all’università di Urbino.
Airbnb ha dovuto accogliere richieste di risarcimento per qualche decesso o incidente. A Taiwan, una donna soffocata per una perdita di monossido di carbonio nel riscaldamento; in Argentina, un americano aggredito dal cane del proprietario di casa.

«L’arrivo di nuove aziende come Uber e Airbnb ci sta obbligando a riscoprire quello che sarebbe stato ovvio alla generazione dei nostri nonni. Ovvero, che determinati servizi al pubblico, come taxi e hotel, necessitano di una seria regolamentazione pubblica per evitare rischi e abusi», aggiunge Juan Carlos de Martin, docente del Politecnico di Torino e tra i massimi esperti di diritti di Internet. Per esempio, Uber sostiene di non essere obbligata a adattare il servizio a persone con disabilità, a differenza di quanto richiesto dalle norme che regolano il trasporto pubblico.

La questione può essere anche più sottile. Secondo il docente di legge Nancy Leong all’università di Denver, gli algoritmi di questi servizi hanno un potenziale discriminatorio, ai danni delle minoranze. Il motivo è che le piattaforme consentono alle parti (utente e fornitore di servizio) di votarsi a vicenda. Fino a escludere chi è non gradito, anche su basi non oggettive. Razzistiche, appunto. La prima evidenza del pericolo è arrivata in un recente esperimento dell’Harvard Business School: ha scoperto che su Airbnb gli utenti con cognomi afro-americani hanno il 16 per cento di probabilità in meno di essere accettati.

Queste piattaforme stanno cominciando ad autoregolarsi, per limitare i problemi. Airbnb stabilisce un minimo di requisiti di sicurezza per chi dà ospitalità; Uber ha avviato programmi per venire incontro a persone con disabilità. Resta però che le misure sono più deboli di quelle a cui sono sottoposti i servizi tradizionali e comunque sono date come “gentili concessioni”, da parte delle piattaforme. Per quieto vivere. Idem per gli accordi che Airbnb comincia a fare anche con le amministrazioni italiane (a partire da Firenze) per far pagare la tassa di soggiorno.
Il rischio maggiore è che il crescente peso competitivo di queste piattaforme spinga verso il basso l’asticella dei diritti di tutti, consumatori e lavoratori. «L’assenza di regole sta creando monopoli nei servizi di questo tipo. Di questo passo, chi vuole lavorare come autista sarà costretto a scegliere Uber», dice Stefano Quintarelli, tra i padri dell’internet commerciale italiana (e parlamentare del gruppo Misto). Che aggiunge: «Servono regole pro-competitive ad hoc, come quelle delle telecomunicazioni, e che siano rispettate quelle del settore. Senza fare differenza tra servizi tradizionali e digitali, se verso gli utenti offrono nei fatti la stessa cosa».