Recentemente riscoperta, l'autrice sarà protagonista di un reading al Festival delle Letterature di Roma, il 4 luglio. Con Bonvicini, Parrella, Vinci, De Gregorio, Ciabatti. E la voce di Cristina Zavalloni

Oggi un autore non si può permettere neanche di essere morto. Può sembrare una provocazione, invece è un dato abbastanza oggettivo. Ormai negli eventi letterari è centrale il corpo dello scrittore, in carne e ossa.

La gente viene per vederlo, per sentire la sua voce, per farsi firmare un libro. Se manca il corpo dello scrittore, manca l’evento. Basta pensare al caso di Elena Ferrante. Sottrae il suo corpo e il suo corpo viene sostituito con quello dei suoi editori o dei suoi traduttori. Ann Goldstein diventa Elena Ferrante, va persino in tour, viene fotografata al posto suo. Chissà se firma anche le copie.

Che fare allora se esce un libro magnifico come “A Manual for Cleaning women” di Lucia Berlin (“La donna che scriveva racconti”, Bollati Boringhieri, traduzione di Federica Aceto) dieci anni dopo la sua morte? Perché questo è successo. Negli Stati Uniti si sono accorti di aver perso una delle maggiori scrittrici americane del Novecento solo nel 2015, quando Farrar, Straus and Giroux ha pubblicato questa raccolta. Lucia Berlin era morta nel 2004, ignorata dalla critica e dal pubblico, negli ultimi anni viveva in una roulotte.

La forza di questi racconti sta nel grado di verità, raggiunto attraverso una scrittura molto contemporanea, che procede per sbandamenti e connessioni inaspettate e ti porta al cuore delle cose per vie inattese. Nel suo caso l’autobiografismo non è un limite: ha vissuto così tante vite che poteva alimentare da sola il lavoro di altri dieci scrittori. È stata ricchissima e poverissima, ha avuto tre mariti e quattro figli, tanti amanti e una sorella morta giovane di cancro, ha sofferto di alcolismo come i suoi genitori, ha fatto mille mestieri – donna delle pulizie, infermiera o insegnante universitaria – e ha abitato ovunque: in Alaska, nelle miniere del West, in California, in New Mexico, in Colorado, in Arizona, a New York, in Cile e in Messico. Questo patrimonio di esperienze quasi inenarrabile è stato trasformato in una grande ricchezza per la sua voce, che su questo scenario troppo vasto per chiunque ha costruito la sua unicità. Insomma, bisognava trovare il modo di prestare un corpo a Lucia Berlin. Ne ho parlato con Valeria Parrella (scambio di mail: «Ma ti sei letta la Berlin?» Risposta: «Vabbè ma io oggi ti stavo per dire: Hai letto la Berlin?»). La sentivamo così viva e presente che le abbiamo dato un soprannome, come a un’amica: «Anton Carver» o «Raymond Cechov». Anche se come scrittrice è più vicina a Cechov che a Carver, che era un suo coetaneo.

E così ci siamo rivolte a Maria Ida Gaeta, che il 4 luglio ci ospiterà al Festival delle Letterature (“Ti racconto una donna”). Con noi ci saranno Simona Vinci, Concita De Gregorio e Teresa Ciabatti. E canterà Cristina Zavalloni. In questo modo anche Lucia Berlin, morta nel 2004, potrà essere a Massenzio, come tutti gli altri autori stranieri del suo calibro. Fatta la nostra parte di scrittrici in carne e ossa, che possono salire su un palco e leggere un testo al microfono, possiamo solo sperare che al resto – quello che davvero conta, alla fine – ci pensino i lettori.