Guerini, Giachetti, Gozi. Alla vigilia della direzione, l'attacco del ministro scatena la difesa del presidente, indiziato per la sconfitta di Roma, dove è commissario del partito. Lo sbaglio - dicono - è stato semmai abbandonare il modello Veltroni e Bettini

Ha probabilmente ragione Matteo Richetti: la direzione del Pd del 24 giugno sarà meno movimentata dal previsto. Il deputato - un tempo fedelissimo renziano - dice giustamente: «Dubito molto che la direzione sarà “infuocata”».

Le ragioni però potrebbero esser molto meno nobili di quelle ipotizzate da Richetti: «O comprendiamo che questo è il momento di capire cosa sta succedendo nel Paese», continua con Il dubbio «oppure prevale la preoccupazione di dare risposte a noi stessi». La minoranza dem, incassato il no di Renzi sul rimpasto in segreteria, attende la prima mossa del premier-segretario per vedere, come dice Michele Emiliano, «se vuole farsi aiutare» oppure no. E la speranza, alla fine, è quasi quella che Renzi faccia il Renzi, ciò che voglia far da solo, rendendo così però chiare le sue responsabilità e spiegando pure come evolverà il rapporto con Verdini, che ha battuto un colpo votando con le opposizioni su un emendamento al Senato, mandando sotto il governo.

Gli interventi saranno duri, questo sì, tant’è che nessuno azzarda un orario di chiusura per l’assemblea, ma su cariche e organizzazione non dovrebbe esser dunque quella la sede per particolari regolamenti di conti.Anche perché, a poche ora dalla direzione, il riflettore si è acceso sul solo Matteo Orfini. Lui sì, fortemente in bilico. Sulla graticola, direbbero i grillini. Superati i confini del partito romano (dove deputati come Marco Miccoli hanno subito detto «fossi in lui mi dimetterei prima che qualcuno me lo chieda»), è stata la ministra Marianna Madia ad aprire la caccia.

La frase, conoscendo il personaggio, è più morbida e non deve suonare come una condanna senza appello. Ma «noi del Pd romano siamo stati tutti rottamati», dice Madia commentando l’esito elettorale, «e penso che il partito a Roma e negli altri territori dove è in difficoltà debba essere stappato». «Se il tappo è Orfini, allora si dimetta da commissario», è la frase che rende perfetto il titolo dell’intervista di Repubblica: «Orfini a Roma lasci la guida».E fortuna che c’è chi difende il povero Orfini. I giovani turchi, ovviamente. Ma non solo. È direttamente Lorenzo Guerini a posizionare palazzo Chigi (consigliando così allo stesso Renzi una linea di pace).

Dice il vicesegretario del Pd: «Io tengo sempre scolpita a mente una frase di Alda Merini che dice: 'Mi piace chi sceglie con cura le parole da non dire'. Consiglierei a tutti più sobrietà nelle dichiarazioni. Orfini si è assunto la responsabilità di commissario di Roma dopo Mafia Capitale e lo ha fatto con grande impegno e determinazione, di cui va solo ringraziato».Ma la difesa non è finita. Se l’interessato non parlerà fino alla direzione, c’è il sottosegretario Sandro Gozi, ad esempio, un tempo prodiano, che parlando con Fabio Luppino di Qn dice «no a processi a Matteo Orfini, ingiustamente indicato come capro espiatorio».

Gozi sintetizza come parte del Pd legga anzi il risultato amministrativo come figlio del «grave errore commesso nell’archiviare il modello Roma di Veltroni e Bettini». La linea del Pd di maggioranza, dunque, si conferma quella già espressa da Roberto Giachetti. La sconfitta non è il prezzo della cacciata di Marino, ma è semmai il prezzo dell’elezione di Marino che con quel mondo, nonostante l’iniziale appoggio di Bettini, aveva detto di voler rompere.

Così dice Gozi ma pensano in molti, la via da seguire è quella di un’ulteriore renzizzazione - e qui l’analisi si incontra con quella di Madia: «Dove esiste il Pd renziano si va bene. Dove il Pd è un’altra cosa abbiamo perso. Dobbiamo costruire un partito di pionieri non di reduci». Che Matteo Orfini fosse commissario con pieni poteri per volere di Renzi, non importa. E se Madia ha detto che qualcuno dovrà pur avere la responsabilità di quello che è successo, Roberto Giachetti difende il presidente dei dem e commissario romano, e smentisce di averne mai chiesto le dimissioni: «Credo anzi», dice, «che il lavoro avviato in questi mesi debba essere completato per permettere al Partito democratico di ripartire.

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