Tra i diari scritti dagli italiani durante la Seconda Guerra Mondiale e conservati nell'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano ecco alcune testimonianze del giorno in cui l'Italia si riscoprì libera: paura, dolore per le ingiustizie e i morti, timore per chi non era ancora tornato a casa. E la speranza di costruire un paese diverso

I racconti scorrono veloci e drammatici. Talvolta ci portano al centro di momenti storici già raccontati nei minimi dettagli. Ci offrono un altro angolo visuale, ci fanno come vivere quell’attimo, di cui, magari, abbiamo solo letto in un libro o sentito raccontare, come fossimo stati lì, come fossimo stati presenti.

Altre volte scivolano via paralleli, come se le giornate che hanno cambiato la vita del nostro paese fossero in sottofondo, un sottofondo rumoroso dal quale chi racconta cerca di allontanarsi il più possibile. Altre volte, ancora, diventano loro stessi storia, ci mettono al corrente di un fatto, piccolo o grande che sia, finora ignoto.

Sono i racconti che ci regalano i diari scritti dagli italiani durante la Seconda guerra mondiale, per non dimenticare i terribili mesi dell’occupazione nazista e della Repubblica sociale, dell’Italia spezzata in due e attraversata dalla guerra. Li conserva da decenni l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano e nei prossimi mesi diventeranno i protagonisti di un progetto unico e ambizioso. Una grande base di dati, un grande libro consultabile online in cui i diari verranno scomposti in singoli brani e ricomposti secondo precisi filoni tematici che daranno vita a centinaia, migliaia di diversi percorsi narrativi. La tradizione orale della guerra vissuta dai singoli diventerà memoria scritta e condivisibile. La fame, la paura, la morte, i combattimenti, la difesa della propria casa, l’attesa dei soldati prigionieri…

Il risultato finale di questo lavoro, sostenuto dalla presidenza del Consiglio e di cui L’Espresso è partner, sarà qualcosa di simile alla “Grande guerra - I diari raccontano”. Lì erano i soldati della Prima guerra mondiale a raccontare la loro vita in trincea e sulle montagne. Qui saranno soprattutto i semplici cittadini, le donne e gli uomini anche senza divisa, che racconteranno la guerra nelle strade di casa, in quel fronte diffuso e talvolta invisibile che ha attraversato l’Italia in quegli anni.

Lì era alcune centinaia i diari che parlavano della Grande Guerra. Qui sono quasi tremila i diari e le memorie che raccontano della guerra in Italia. Un patrimonio enorme e unico che per la prima volta viene analizzato a fondo e reso facilmente consultabile.

È proprio per l’unicità di questo patrimonio che l’Espresso ha deciso di anticipare, in occasione del 25 aprile, qualche brano di quei diari. Un omaggio a chi in quegli anni combatté per liberare l’Italia. E un omaggio a chi ha resistito in silenzio alla violenza della guerra, a chi ha combattuto quella che viene definita la “resistenza della quotidianità”.

IL DOPPIOGIOCO DI LICIO GELLI

Enzo Capecchi, vicecomandante di una formazione partigiana, ci offre la testimonianza diretta delle capacità camaleontiche di quello che sarebbe diventato il capo della loggia massonica P2 e protagonista di pagine oscura della storia dell’Italia repubblicana, Licio Gelli. Al suo racconto non c’è nulla da aggiungere.
“Il 13 o 14 giugno [1944], durante un incontro con Licio Gelli, il quale continuava la sua attività senza aver destato sospetti fra i fascisti ed i tedeschi, sapemmo che più di cinquanta detenuti, fra cui due persone di origine ebraica, erano rinchiusi nel carcere di Pistoia… Il Gelli aggiunse che i prigionieri sarebbero stati di lì a poco trasferiti al nord… Con Silvano (Silvano Fedi, il capo della formazione partigiana Ndr) decidemmo di intervenire per tentare di liberare i prigionieri… Ci rendemmo conto che era indispensabile ricorrere, anche questa volta, all'aiuto del Gelli. La mattina di mercoledì 21, io e Silvano ci mettemmo sulla strada fra Olmi e Barba per aspettare che passasse la macchina dell'ufficiale repubblichino. Appena potemmo parlargli, Silvano gli chiese se fosse sempre disposto ad aiutarci.

Alla sua risposta affermativa, Silvano domandò ancora: lo saresti anche se dopo l'azione che ti sto per proporre tu dovrai darti alla clandestinità? Il Gelli rispose affermativamente senza batter ciglia anche questa volta. Allora lo mettemmo a conoscenza del nostro piano. L'ufficiale non mosse obiezioni. Armato di mitra, salii a bordo della macchina del Gelli insieme a Silvano. Giungemmo rapidamente alla Villa Sbertoli ed al cancello il comandante scese, mentre noi proseguimmo per il tortuoso viale alberato. Il Gelli era conosciuto al carcere e mi accompagnò subito dal maresciallo comandante le guardie e mi presentò come ispettore della polizia repubblicana. Dissi al sottufficiale che intendevo ispezionare subito le celle e che me ne occorreva una libera per il pomeriggio di quel giorno perché dovevo condurvi due temibili e famosi capi partigiani catturati da poco…

Alle 14 di quel giorno, con la macchina guidata dal Gelli, ci presentammo in sette al carcere. Silvano e Artese Benesperi erano stati ammanettati in maniera tale da potersi liberare rapidamente. Avevano in tasca le pistole e le bombe a mano. Erano scortati da mio cugino Marcello, Giovanni Pinna e Jacopo Innocenti, armati di mitra. Ordinai al sottufficiale comandante la guardia di adunare tutti gli uomini di servizio, compresi i militi, perché dovevo parlare loro con urgenza. Quando il gruppo fu al completo, esclamai a voce alta: siamo pronti! Era il segnale convenuto. Puntammo le armi contro guardie e militi che rimasero di sasso. Raccogliemmo le armi abbandonate e facemmo aprire tutte le celle che furono subito occupate dal personale del carcere, mentre i detenuti, in massima parte politici, si precipitavano fuori. Marcello tagliò i fili del telefono e chiedemmo agli ex prigionieri quali intenzioni avessero. Coloro che decisero di raggiungere le formazioni partigiane ebbero indicazioni e ricevettero un'arma e munizioni. Riprendemmo la via del ritorno e poi ci separammo dal Gelli dopo avergli consegnato quarantamila lire, viveri e sigarette, come avevamo stabilito in precedenza. In tal modo, cessò ogni collaborazione fra la nostra formazione e l'ufficiale repubblichino e mai più avemmo occasione di incontrarlo sulla nostra strada”.


LA MIA LIBERAZIONE”

Il 4 giugno 1944 i soldati americani entrano a Roma. È una giornata-icona. Le jeep circondate dai romani in festa, il generale Clark, i tedeschi in fuga lungo la Cassia. Ma per una donna che vive nel cuore della città, in via dell’Oca, dietro piazza del Popolo, è una giornata come tutte le altre, solo disturbata da spari e rumori in più. Lei, Fedora Brcic, ha un solo pensiero, quello di suo marito prigioniero in Polonia che non torna a casa. E, nello scrivere, si rivolge a lui. Dalle sue parole non traspare, nemmeno per un attimo, la felicità che stava travolgendo tutti i romani.

“4 giugno 1944, domenica. Stasera nuovamente traffico col carbone per la cena ed ora eccomi qua a buttar giù due righe per il resoconto della giornata. Poco fa è tornata la luce. Proprio ora Olga mi dice di aver sentito nel cortile la notizia che gli anglo-americani sono entrati a Roma alle 9,15! Che Dio ti protegga mio dolce amore: il mio affetto farà il resto! Ore 22: mezz’ora fa si sono sentiti i rumori di carri armati, poi la gente incominciò ad uscire dalle case, battere le mani ai nuovi venuti… Tutti gli inquilini uscirono sui pianerottoli ed io pure feci lo stesso. Seppi così che proprio davanti al portone ci sono stati tre morti: un americano e due tedeschi: i due che stavano alle mitragliatrici di ponte Margherita… Mi sono coricata alle 22,30…

5 giugno 1944, lunedì…Poco dopo le 6.00 sentii rumore di carri armati e andai alla finestra. File interminabili di camionette e carri armati adorni di bandiere italiane e tanta folla ai lati che batteva le mani, agitava fazzoletti, agitava le braccia in segno di saluto… Verso le 10,30 esco per vedere se potevo trovare qualcosa per il pranzo… Se Dio vuole sono arrivata alla rosticceria… Il cuoco mi mise in mano una carta di roba ancora calda dicendomi: ’50 lire’, ed io presi l’involucro senza sapere cosa contenesse… erano due belle bistecchine ai ferri…
7 giugno 1944… Io provo una gran pena adesso che sono tutti raggianti. La tua lontananza in mano di quelle canaglie mi mette tanta amarezza nell’animo. La guerra finirà presto ed io spero con tutte le mie forze che tu possa raggiungermi tra non molto”.

MATRIMONIO DI GUERRA

Isabella Napolitano, all’inizio nel 1945, ha poco più di 21 anni. È di Avella, in provincia di Avellino, ma dal 1943 vive a Savona. Nella Liguria occupata dai nazifascisti trova l’amore della sua vita, Carlo. E la guerra sembra sparire per lasciare posto alla cosa più importante, i preparativi per il matrimonio.

“I negozi erano quasi vuoti, con poca mercanzia, ma noi cominciammo pazientemente a girare per la città per scovare l'indispensabile che ci occorreva. Io trovai un bel vestitino, Carlo un vestito blu ed un pigiama, io una bellissima camicia da notte in organza celeste con i ricamini a nido d'ape e le manichette a palloncino. Ero meravigliata che c'era ancora qualcosa. Ma l'abito bianco da sposa, quello no non ce lo potevamo permettere, del resto non ce n'erano in vendita. Io avrei indossato il mio tailleur grigio perla quasi nuovo con un cappellino dello stesso colore, e Carlo il vestito blù appena comprato. Avevamo l'entusiasmo della gioventù ed il desiderio di essere uniti per sempre. Carlo aveva 23 anni, io 21 e tanto amore reciproco.

Facemmo le partecipazioni e le bomboniere tutto come se la guerra non ci riguardasse più. I documenti? Nemmeno a parlarne, eravamo ancora isolati, solo due atti notori e due amici testimoni per la nostra identità. Proprio sposi sulla parola, proprio “sposi di guerra”. (Ma ci furono tanti matrimoni fasulli che ebbero un triste epilogo, chi aveva tre figli nel Sud, chi un'altra moglie, insomma bugie di guerra).

Era il 14 marzo 1945; in chiesa pochi fiori e qualche candela, tutto in economia per la guerra, ma Carlo mi accolse con un bel mazzo di camelie, sorridente e felice; io ero arrivata con Pino, l'amico testimone che era venuto a prendermi in carrozza a casa. Ci avviammo all'altare laterale perché il maggiore era stato sinistrato in quel famoso bombardamento di cui ho parlato. Carlo mi abbracciava tutta con lo sguardo, mi offrì le camelie e mi diede il braccio. Eravamo tutti emozionati e contenti, i testimoni, i colleghi e i pochi carissimi amici. E finalmente davanti al prete il nostro “sì”. Le fedi d'oro luccicanti nelle quali era inciso "Isa a Carlo", "Carlo a Isa”, 14 marzo 1945. Mi sentivo talmente orgogliosa al braccio del mio Carlo, e quel cerchietto d'oro mi dava tanta tenerezza, mi faceva sentire tanto sicura del nostro amore, anzi mi faceva sentire tanto Signora Sanzo.
Carlo era mio marito, mio per sempre! Il piccolo ricevimento a casa, la distribuzione dei confetti le congratulazioni degli amici, la cenetta con i due testimoni, e finalmente e noi due soli. Un avvenimento tanto desiderato si stava realizzando.

C’era in casa un'aria così romantica, Tanto profumo di fiori, mughetti, rose, narcisi, omaggio dei nostri amici; e Carlo, il mio Carlo così tenero ed ansioso, mi abbracciò stretta stretta in silenzio, era per me un momento magico, poi mi prese le mani e le baciò a lungo e poi con un sorriso tra timido e impacciato, mi disse: vado a togliermi questo vestito e metto il pigiama. Io emozionata indossai la mia bellissima camicia vaporosa e mi misi sul letto rannicchiata con le braccia intorno alle ginocchia, ma quando lui tornò in pigiama mi si avvicinò, mi prese le mani e mi fece alzare, mi abbracciò teneramente e poi guardandomi negli occhi si inginocchiò ai miei piedi cingendomi, le ginocchia. “Ti amo, ti amo tanto”. Io confusa e tremante lo sollevai con le braccia. “Anche io ti amo tanto, ho un nodo che mi stringe la gola, vorrei piangere.” Ma non potei finire la frase, un dolcissimo bacio mi chiuse la bocca. La sua tenerezza creò un alone magico che mi fece sentire la donna più bella e desiderabile del mondo. Era tutto un sogno!

Il viaggino di nozze? Una gita in treno a Cairo Montenotte ospiti di un amico palermitano Pino, il testimone di nozze, anche lui ex militare. Egli aveva una compagna, si volevano molto bene ma lei sapeva che finita la guerra, Pino sarebbe ritornato a Palermo dalla moglie e i suoi due figli. Passammo la luna di miele tra passeggiate e... dormite interminabili e indimenticabili.

SENZA SALE

Se non si mangia sale ci si ammala. Lo scoprirono gli sfollati di Fabbrica, nel pisano. Maria Dispenza, moglie di un partigiano della Brigata garfagnina che verrà poi ucciso, è lì con le figlie e nel suo diario racconta del sale e del cibo che non c’era.

“A Careggine ogni tanto arrivavano degli allevatori di animali con le loro mandrie, per sottrarle ai nazi-fascisti: venivano dall'Emilia, affrontando pericolose vie traverse dell'Appennino tosco-emiliano per offrire ai partigiani della Garfagnana i loro animali da macello. Degli animali macellati a Cafeggine, il Comune faceva distribuire la carne agli abitanti della propria giurisdizione: così anche noi a Fabbrica, ne ricevevamo qualche porzione... All'improvviso una strana "epidemia" stava diffondendosi in paese: alcuni fabbrichini accusavano malesseri intestinali e una colorazione giallina, dapprima alla cornea degli occhi, poi alla pelle... Subito ne fummo spaventati anche perché non ci si rendeva conto da cosa era provocato quel malanno, tanto più che via via altri né venivano colpiti.

La spiegazione non tardò a farsi strada, da chi era stata diffusa non si seppe, ma certo era stata "enunciata" da qualche medico. La mancanza di sale nell'alimentazione, era la causa di tale "epidemia"! Per fortuna, il prezioso sale non tardò ad arrivare anche a noi, nel nostro isolato paesino. Le donne di Massa, intraprendenti, coraggiose, eludendo la sorveglianza dei tedeschi, andavano di notte sulle spiagge, riempivano bidoni di acqua di mare, poi a casa la facevano evaporare, ricavandone il sale... Affrontando fatiche e pericoli, quelle benemerite donne, a piedi, scalando la rocciosa catena delle Alpi Apuane, naturale baluardo tra la Versilia e la Garfagnana, arrivavano, portando a noi, assediati abitanti del versante Apuano, alle pendici opposte della Tambura, quel "sale benedetto"! In cambio i garfagnini, procuravano loro farina di castagne o di granturco. Con i sacchi di farina sulle spalle, quelle intrepide donne, riprendevano la faticosa via tra i monti, tornando alle loro casa in Massa. Grazie ai sacrifici di quelle meraglgliose donne, il "pericolo giallo" (così l'avevamo definito), fu completamente debellato e, anche chi ne era stato colpito, miracolosamente si ristabilì senza riaccusarne alcun effetto postumo”.

FUCILAZIONE

Il 22 marzo 1944 è il giorno della strage di Maiano Lavacchio, a pochi chilometri da Grosseto. Undici giovani renitenti alla leva della Repubblica di Salò vengono messi al muro dai fascisti. Sono undici delle 22.000 vittime civili del nazifascismo censite dall’Atlante delle stragi naziste e fasciste messo recentemente online. Licia Bani, che allora aveva 21 anni, racconta quei giorni nel suo diario.

“28 marzo 1944. Ieri il babbo ci ha portato delle notizie che ci hanno sconvolto: il 22 di questo mese, a Maiano Lavacchio, davanti all'appalto di sali e tabacchi, sono stati trucidati undici giovani partigiani. Li conosco quasi tutti, ma in modo particolare Emanuele e Corrado Matteini. Mi pare di averli dinanzi agli occhi così come erano al mare ai tempi di pace. Me li aveva presentati Aldo e subito simpatizzammo e diventammo amici. Erano due giovani molto belli, sportivi, allegri, ma soprattutto, di elevati principi morali, umanitari e di ideali politici uguali ai nostri. Con loro ho fatto spesso il bagno perché la loro casa era a poca distanza dalla mia e stavamo nello stesso tratto di sabbia a prendere la tintarella. Ogni tanto, Aldo ed io andavamo a casa loro per parlare dei nostri problemi, ma per lo più lo facevamo passeggiando lungo mare, lontani da orecchie indiscrete.

E ci accaloravamo e sognavamo... Non so farmene una ragione. Questo fatto è il più disumano fino ad ora da me registrato o udito. Un atto proprio da iene, come Aldo voleva chiamare certa gentaglia e mi auguro che anche i fascisti che non hanno assunto l'aspetto di tali belve condannino quest'azione che disonora tutto il genere umano. La guerra è guerra, è vero, ma anche in tempo di guerra esistono prigioni e processi. Per i fascisti erano nemici, e sia, ma da come si sono svolti i fatti, non si è trattato di una punizione per trasgressione alle loro leggi, ma di un vero massacro. Non riesco a comprendere come si possa giungere a così tanta malvagità, noi italiani, spesso scherniti per il nostro tenero cuore. Da soldati tedeschi, già duri per razza e ciechi di fronte all'ubbidienza militare, potevo arrivare a capirlo, anzi me lo sarei aspettato, ma dai nostri connazionali proprio no! I fascisti pur codardi al cospetto dei loro alleati, un modo per attenuare la pena avrebbero potuto trovarlo. Si trattava, in realtà di giovani renitenti alla leva di Graziani, non di criminali. E si sono presentati più di cento ad accerchiare la capanna dove dormivano quelle creature ancora sbandate dopo il disastroso annuncio di Badoglio. Eroici davvero! Poveri ragazzi, svegliati all'alba, trucidati poche ore dopo, senza un moto di pietà neppure per quei poveri genitori avvertiti e subito corsi ad implorare. Di questa selvaggia strage degli innocenti ne dovrà parlare la storia non soltanto locale! Ne dovranno portare eterno dolore e sdegno tutti gli uomini degni di tale nome. Per gli altri, pregherò Dio che tocchi la loro coscienza in modo che finché campano si sognino quei giovani volti come in un incubo. No, non posso avere buoni sentimenti per loro. Non hanno alcuna attenuante, neppure quella della guerra. Questi episodi non potranno che rafforzare ogni fede antifascista e dare coraggio agli indecisi”.


LA GUERRA E' FINITA

Saverio Tutino è l’ideatore e il fondatore dell’Archivio di Pieve Santo Stefano. Giornalista, inviato, appassionato di storia è stato partigiano combattente. Il suo nome di battaglia era Nerio ed è stato commissario politico prima della 76^ brigata Garibaldi poi della VII divisione Garibaldi. Di quei mesi tenne un diario dettagliato che sta per essere pubblicato dalla casa editrice Le Château edizioni. A Tutino lasciamo il racconto degli ultimi giorni di guerra.
18 aprile. Altre azioni della Brigata: Furbo attacca con 8 uomini 300 russi armatissimi e riesce a sfuggire illeso alla reazione, infliggendo qualche perdita.
Attacco a Ivrea con mortaio e bombarde. Gravi danni alla stazione.
Abbiamo eliminato due fascisti: un maresciallo delle Brigate Nere ed un pericoloso filonazista di Ivrea.
Il firmare simili (sentenze) è cosa che si fa senza ripugnanza, dopo che la guerra – questa guerra – ci ha fatto vedere le più assurde bestialità-.
È ancora salvo l'animo buono, il desiderio di bene? Penso di si, anzi sono certo di si, quando vedo il popolo, tutto questo popolo, amarci come unici figli, amarci dolorosamente – nel sangue - e appassionatamente. Tuttavia una fine di tutto questo, un definitivo: basta! alle mille furie scatenate, di tutte le specie – quando verrà – sarà davvero, un vivo avvento di pace.
Una voce (voce strana, voce naturalmente scordata) mi ha detto stasera che sono troppo giovane per le mie responsabilità. Voce scordata.

25 aprile. Da Caserma si parte quasi di corsa, tutti sui camion. A Biella ci sono già i partigiani (75^) i tedeschi e i fascisti mollano, stanno per mollare dappertutto. Si parte passando da paesi in festa. Ci applaudono, ci buttano addosso fiori. La gente ride, acclama, grida è pronta allo scatto finale di entusiasmo. Noi versiamo qualche lagrima di commozione.
Poi si combatte di nuovo, per bloccare la Val d'Aosta.

14 maggio. Quello che ci appare più grave è il doverci lasciare – da compagno a compagno di una lotta severa e dolce al tempo stesso – e subito ce ne mostriamo costernati addirittura.
Siamo commossi: il risultato ci pare enorme, ci stupisce perfino. Siamo capaci di un'emozione simile al nodo nella gola dei bambini, tanto siamo cambiati in quel mondo che ci siamo fatti da noi, senza accorgercene.
Ricordo la severità di certe riunioni del comando, in una casa qualunque, per scegliere altri quadri, sviluppare quelli già esistenti: un atto creativo, specchio di una morale, la scelta, l'eliminazione successiva, le cure necessarie, tutto si svolgeva in quell'atmosfera nitida di innocenza.
Chiedevamo al destino lotta e sacrificio, e chiedavamo anche l'onestà, senza paura di fingere.
Da questa atmosfera si sono creati degli uomini che dicono – loro stessi – di sentirsi maturi, temprati nello spirito.
Ho già sentito ripetere da tre o quattro, questa frase: "... io mi sono fatto una coscienza..."
Dirlo così, - semplicemente – senza tono da intervista, ma solo coll'esigenza di sincerità e di apertura che ha l'annuncio di una cosa lieta, è la prova più bella della verità. Così come quel pianto: il primo giorno di festa, per noi, - passando col camion attraverso il "nostro" paese – mentre ci buttavano fiori dalle finestre, dalla strada e tutti gridavano e applaudivano pieni di entusiasmo, stavo ridendo e forse gridavo anch'io, quando mi volsi e vidi Lalli e Fanfulla, fermi, stretti l'uno all'altro sul sedile, che piangevano e subito anch'io mi misi a piangere.
La cosa più grave è proprio quella del doverci lasciare: Bologna, Torino, Milano ci desiderano.siamo tutti giovani sui vent'anni: dai diciannove ai ventidue, ventitre – Ci pare strano che qualcuno, forse, non ci prenda sul serio completamente. Non tutti capiscono come rende l'uomo serio e maturo, il vedere altri giovani morti e straziati, il combattere contro tutte le avversità, fisicamente, si, ma sostenuti dalla ragione; il giudicare della vita o della morte di altri uomini colpevoli di delitti; non tutti lo possono capire subito.

E noi abbiamo una grande paura: quella di affogare di nuovo nelle banalità di prima. Per questo ho detto: la cosa più grave è proprio quella del doverci lasciare.