Da quel 18 gennaio 2014, quando Renzi e Berlusconi chiusero l'accordo sulla riforma costituzionale, al "rischio palude" minacciato dal premier in caso di vittoria del No: dieci scatti per ripercorrere le tappe fondamentali che porteranno al voto del 4 dicembre

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1) Berlusconi al Nazareno



A palazzo Chigi c’era ancora il governo di Enrico Letta, che stava «sereno» - come gli aveva suggerito Renzi - ma sarebbe caduto poco dopo. Il 18 gennaio 2014, immagini mai viste prima conquistano tutte le aperture dei giornali: Silvio Berlusconi entra nella sede nazionale del Pd di Largo del Nazareno, Gianni Letta al seguito, per incontrare Matteo Renzi, fresco della vittoria alle primarie. I due chiudono un accordo sulla nuova legge elettorale e sulla riforma della Costituzione.

2) Il governo Renzi, l’ultimo votato dai senatori 



Con l’accordo del Nazareno, Renzi, da dicembre segretario del Pd, fa così il salto, fa dimettere Letta e riceve l'incaricato da Napolitano per formare un nuovo governo e portare a compimento le riforme costituzionali. E può maltrattare i senatori: «Mi auguro di essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedervi la fiducia», gli dice prima di incassare il loro sì, praticamente sulla soglia di palazzo Chigi.

3) Il soccorso di Verdini



L’accordo con Forza Italia però dura poco e si rompe ufficialmente in occasione dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, dopo il Napolitano bis, quando Renzi sceglie Mattarella contro il parere di Berlusconi. I forzisti votano così la riforma solo una volta, quando il Senato approva una prima versione del testo, l’8 agosto del 2014. Poco male però. Perché, più del senso di disciplina della minoranza dem, che domina i malumori e si allinea sempre, è l’ex braccio destro di Berlusconi, Denis Verdini, ad assicurare i voti, soprattutto al Senato, decisivi. «Nasce il partito della Nazione», accusano le opposizioni e lamentano i bersaniani. Che però continuano ad assicurare, con Verdini, il percorso delle riforme e la fiducia al governo.

4) L’Italicum è legge



Il primo luglio 2016 è entrata in vigore la nuova legge elettorale, che vale solo per la Camera, dando già per abolito il Senato, ed è un tutt’uno con la riforma costituzionale. È l’Italicum, il primo frutto (modificato) del patto del Nazareno, approvato, tutto sommato rapidamente, il 4 maggio 2015. Per le opposizioni - compresa Forza Italia - è una legge autoritaria. Ma è soprattutto la minoranza dem a denunciare «il combinato disposto» tra l’Italicum e la riforma costituzionale, che dà solo alla Camera (dove chi vince le elezioni domina in virtù di un solido premio di maggioranza) l’onere della fiducia al governo. Per questo alcuni deputati, tra cui Bersani, non hanno votato il testo nell’ultimo passaggio alla Camera e hanno continuato a porre il tema. Votando la riforma costituzionale in aula ma sostenendo poi il No al referendum. Solo Gianni Cuperlo, infatti, si è fidato della promessa di Renzi, che assicura che l’Italicum sarà modificato dopo la vittoria del Sì.

5) L’approvazione



«Dichiaro chiusa la votazione», dice il 9 agosto 2016 Laura Boldrini. Con 361 sì, 7 contrari e il resto dei deputati fuori dall’Aula, la riforma è finalmente approvata in doppia lettura conforme. Manca dunque solo il referendum (che è senza quorum, vi ricordiamo), la cui campagna elettorale è però già partita da tempo, più o meno da quando, il 4 aprile 2014, il Consiglio dei ministro ha licenziato il testo preparato dal ministero di Maria Elena Boschi. Ed è partita all’insegna della personalizzazione.

6) “Se perdo me ne vado”



«È del tutto evidente che se noi, anzi se io perdo il referendum costituzionale, considererò fallita la mia esperienza in politica». Così disse infatti Matteo Renzi durante la conferenza stampa di fine anno, fine 2015, alzando subito la posta. Era il 29 dicembre e sul piatto non c’era più solo la riforma, né solo il suo governo. Non fosse riuscito a riformare la Costituzione, Renzi assicurava di cambiare vita e mestiere. A marzo 2016, alla scuola di formazione dem, è ancora più esplicito: «Se perdiamo il referendum», dice, «è sacrosanto non solo che il governo vada a casa ma che io consideri terminata la mia esperienza politica». Poi la versione si è però piano piano stemperata. Ad agosto alla Cnbc Renzi dice: «Sono sicuro che vincerò il referendum, ma non è il referendum di Renzi». E oggi non è escluso che Renzi non solo rimanga in politica, ma che, vincente il No, resti pure a palazzo Chigi.

7) D’Alema scende in campo



La personalizzazione non riguarda però solo Renzi. Perché sulla scena referendaria c’è anche un ingombrantissimo Massimo D’Alema. Che l’impegno dell’ex premier sia stato l’asso nella manica di un vincente comitato del No o un favore a Renzi, lo capiremo solo il 5 dicembre. Il leader Maximo, però, è sceso in campo, incurante che i renziani potessero così rispolverare l’obiettivo della rottamazione. L’ex allievo Matteo Orfini gli ha dato del «girotondino» e lui, morettianamente, ha detto «non perdiamoci di vista» a chi, anche da dentro il Pd, è andato a sentire il suo appello per il No.

8) Accozzaglia



Così, quella sul referendum è stata la campagna dell’antitestimonial, all’insegna del dimmi come voti, io farò il contrario. Per settimane si è discusso su quale schieramento fosse la peggiore «accozzaglia» - parola usata per primo dal presidente del Consiglio. A voi fa più impressione vedere insieme Quagliariello, Civati, De Mita e Di Battista, o pensare che dall’altra parte ci sono Alfano, Verdini e Elsa Fornero? Il referendum dovrebbe essere sul merito della riforma, ma sicuramente vi sarete posti il problema.

9) Berlusconi per il No (e per se stesso)



Cacciato dal Parlamento, interdetto dai pubblici uffici, operato al cuore, deluso anche dall’ultimo dei suoi delfini, dal manager Stefano Parisi che doveva vincere a Milano, e non l’ha fatto, e doveva portare la pace dentro Forza Italia, e non l’ha fatto. Per Silvio Berlusconi sono stati due anni difficilissimi, e giustificare la rottura del patto del Nazareno («Forza Italia ha cambiato idea per puri calcoli politici», è l’accusa dei renziani) è l’ultimo dei suoi problemi. Anche per tenere buoni gli alleati di sempre (la destra di Meloni e la Lega di Salvini) Berlusconi deve così impegnarsi per il No, che potrebbe regalargli una vittoria, sia pure condivisa con D’Alema, la sinistra e i grillini. È convinto di valere 4 punti, Berlusconi, che prova a convincere i suoi più storici elettori intervistato da Barbara D’Urso, doppio petto blu e capelli arancioni. Annuncia anche un suo ritorno in campo, Berlusconi, e si gioca la carta nostalgia, evidentemente preoccupato che agli spettatori di Canale 5 possa ormai piacere più Renzi, intervistato subito prima.

10) “Si rischia un governo tecnico”



«C'è il rischio del governo tecnico, solo il Sì può scongiurarlo», dice Matteo Renzi tornando così a rilanciare il rischio «palude» in caso di vittoria del No. Dalle opposizioni ribattono che il suo è già un governo tecnico e che (tipo Arturo Scotto di Si) «se non avesse voluto il Pd non ci sarebbe stato nessun governo tecnico». Ancora una volta, così, il punto non è il merito della riforma ma il contorno, lo scenario politico.