Il prestigioso riconoscimento per la narrativa in lingua inglese va per la prima volta a uno statunitense. E ha un significato speciale. Perché il romanzo dell'autore afroamericano parla del nostro incoscio. E del valore che diamo al corpo degli altri. Non in America, ma alla porta di casa nostra

Un premio a sorpresa, ma non troppo, questo Man Booker Prize 2016 a Paul Beatty per Lo schiavista (titolo originale 'The Sellout', edito in Italia da Fazi editore). Il maggior premio britannico per la narrativa, che va ogni anno a un romanzo in lingua inglese, è stato assegnato per la prima volta a uno statunitense. E per la prima volta a un afroamericano. Non è forse un caso.




A fine mandato del primo presidente nero, a pochi mesi dall'apertura del primo museo dedicato alla storia dei neri americani a Washington, con la campagna Black Lives Matter che negli ultimi tempi ha scosso le coscienze, non è forse un caso che il premio vada a un romanzo così. E non per un fatto di immagine. Ma perché per raccontare la segregazione, la paura, la memoria della schiavitù e le sue conseguenze a lungo termine sull'incoscio e sulla società, Paul Beatty ha inventato una lingua. Ed è questo l'invenzione di una nuova lingua per parlare del mondo, che un premio letterario deve innanzitutto premiare.

Ne Lo schiavista Beatty racconta di un giovane nero, Bonbon, che fa un mestiere assurdo in un luogo assurdo, quel tipo di assurdità prodotta da decenni di abbandono, povertà e insicurezza sociale. Il quartiere in cui abita ha un nome altisonante: si chiama Dickens e sta nella periferia di Los Angeles, ma è un posto talmente disperato che non è nemmeno più segnato sulle mappe. Bonbon fa uno strano mestiere: coltiva la terra, in un appezzamento sopravvissuto non si sa come alla lottizzazione delle case popolari. E' un uomo onesto, che non ha mai avuto a che fare con la giustizia.

Eppure, arriverà davanti alla Corte Suprema con l'accusa incredibile, per un nero, di aver voluto restaurare la schiavitù. Leggere Lo Schiavista è un viaggio che fa stare male. E non è un viaggio che porta lontano, ma vicinissimo a noi. Al valore che diamo al corpo degli altri. Non in America, ma alla porta di casa nostra.