Un magistrato coraggioso. Un'indagine giudiziaria che coinvolge il gotha del potere brasiliano. E un consulente venuto dall’Italia: Di Pietro. Che accusa: "C’è un sistema mondiale, con gli stessi personaggi"

Una città con mezzo milione di anime, persa nelle pianure del sudovest del Brasile, nascondeva un tesoro da 4.000 milioni di dollari. Si chiama Londrina. La storia di Lava Jato, la Tangentopoli del gigante sudamericano, la “Mani pulite” versione carioca, inizia qui, a 400 chilometri da San Paolo. In un ufficio anonimo dove tre piccoli cambisti ripuliscono denaro sporco.

La polizia federale del Paranà sa bene cosa fanno. Ogni tanto li ferma, li interroga, poi li lascia liberi in cambio di qualche informazione sui clienti che riciclano i dollari sporchi, quelli che arrivano dalla vendita della coca e dal nero. Routine che finisce spesso nel vuoto. Non sempre. Il caso, e quelle circostanze che rendono imprevedibile l’esistenza, sono in agguato. Ma saperle cogliere dipende da chi indaga.

Marcio Adriano Anselmo, commissario di Curitiba, città costiera a 200 chilometri da San Paolo, è uno di questi. Lavora in una stanza disadorna con altri due giovani poliziotti. «Stavamo lì tutto il giorno», ci racconta, «ad ascoltare ore e ore di chiacchiere al telefono e negli ambienti in cui avevamo piazzato delle cimici. Stavamo addosso a tre riciclatori di Londrina».

Al vertice di questa piccola struttura c’è un magistrato. Si chiama Sergio Moro, 44 anni, docente universitario e scrittore nel tempo libero. Ha origini italiane, una moglie, due figli, si è specializzato in reati finanziari e oggi, come allora, siede nel Tribunale Federale criminale numero 13 di Curitiba. Ha letto tutti gli atti di “Mani pulite”, ha chiesto lumi e consigli a Milano e al vecchio pool del ’93. «È vero», dice Antonio Di Pietro. «Sono appena tornato dal Brasile. Non è la prima volta. Del resto, quella di Lava Jato è una storia già vista». Della presenza anche di Gherardo Colombo dice di non sapere nulla. Preferisce parlare in prima persona senza coinvolgere gli ex colleghi. «Ho parlato a lungo con il Procuratore generale», spiega Di Pietro. «Paragonare Lava Jato a Mani pulite è riduttivo ma il sistema imprenditoriale e quello politico agiscono per gli stessi interessi distraendo soldi pubblici».

L’ex leader dell’Italia dei Valori è convinto che ormai il sistema delle tangenti nel patto tra imprenditoria e politica sia diffuso a livello planetario. «Esistono società, paesi, banche, istituzioni finanziarie, personaggi, che ricorrono in tutte le inchieste del mondo. C’è una struttura internazionale che agisce secondo schemi precisi e sperimentati». Una sorta di Spectre del crimine finanziario. C’è chi pensa a riciclare, chi raccoglie i soldi, chi li lava, chi li rimette nel circuito legale, chi distribuisce le tangenti. «Quello che vedo», aggiunge l’ex pm di Mani Pulite, «è il tentativo di delegittimare il lavoro della magistratura. Accade in Brasile, è accaduto in Italia. L’obiettivo è chiaro: non si tratta di una guerra tra guardie e ladri ma di un banale scandalo su cui qualcuno vuole costruire una carriera. Le ricorda qualcosa? Anche questa è una storia già vista. Ai colleghi brasiliani lo dico sempre. Li avverto. Qui non si tratta di Brasile o Italia. Accade perché il sistema è collaudato a livello mondiale». Lei ha mai trovato le prove di questo? «Se le avessi trovate e le avessi potute utilizzare in un’aula di giustizia, non mi sarei dimesso dalla magistratura».

Tra le migliaia di intercettazioni, il più giovane degli agenti di Curitiba scopre che uno dei colletti bianchi, Carlos Habib Charter, contatta spesso un certo Alberto Youssef. È un nome che ricorre con frequenza sospetta in quelle trascrizioni. Lo riferisce al capo che «sembra avere un sussulto», ricorda adesso il poliziotto. Il commissario Marcio Adriano Anselmo consulta freneticamente il suo archivio elettronico. Torna indietro di dieci anni, al 2004. Youssef è una vecchia conoscenza, ha 47 anni, ed è il regista di una grande rete di lavaggio di denaro sporco scoperta nell’operazione “Banestado” dello Stato di Paranà. Uno scandalo che aveva messo in subbuglio il mondo affaristico-finanziario, con sequestri e raffiche di arresti.

Anche allora guidava le indagini un giovane magistrato che nessuno conosceva. Lo stesso Sergio Moro di oggi, quello di “Lava Jato”. Il giudice e il commissario si consultano. Scattano i primi provvedimenti. Nella rete finisce anche Youssef. «All’inizio», confida il commissario Anselmo, «non potevo credere che tra tutte quelle intercettazioni spuntasse il suo nome: era il risultato più importante di tutta la nostra indagine. Ma non avrei mai pensato che dietro si potesse nascondere lo scandalo corruttivo più devastante di tutta la storia del Brasile».

Il nome di Youssef porta subito a un altro personaggio di primo piano della vecchia inchiesta “Banestado”. Una donna, Nelma Kodana, 48 anni, nota a tutti come la “Signora della Borsa”, una maga dei cambi di San Paolo: muoveva milioni con disinvoltura, serviva i più importanti affaristi del mondo dell’import ed export. Gente che aveva bisogno di trasformare il denaro sporco in moneta pulita. Conservava moltissimi segreti, conosceva persone influenti. La piccola squadra di investigatori afferrato così un filo decisivo della matassa lo tiene ben stretto e inizia a tirarlo. «Certo», ammette il commissario, «mancavano le prove. Ma sapevamo di aver agguantato qualcosa di grosso».

Il coperchio dello scandalo del secolo inizia a sollevarsi. Porterà alla tempesta perfetta in cui incapperanno oltre 70 imprenditori e 130 tra deputati e senatori. L’intero sistema delle costruzioni brasiliane e mezzo Parlamento. La Tangentopoli del Sudamerica. L’alleanza di ferro tra mondo economico, imprenditoriale e classe politica. Gli industriali per fare nero, i partiti per rimpinguare le loro casse. Un filo che lega tutti e che arriva fino a Planalto, la sede della Presidenza.

Raggiunge Dilma Rousseff, la trascina nello scandalo con l’accusa di alterazione del bilancio pubblico, provoca la rivolta dell’opposizione, spinge milioni di brasiliani a scendere in piazza, la destituisce con metodi spicci, quasi brutali, tanto da farla gridare al golpe bianco. Grida sempre più sommesse. Perché, nel frattempo, c’è chi parla e c’è chi fornisce le prime prove a un teorema che si svela in tutta la sua articolazione. E la crisi economica aiuta chi soffia sul fuoco, Confindustria in testa. Il sogno di un Brasile forte, gigante economico di un Continente ricco di petrolio e di materie prime, si scioglie con la recessione. Mentre lo scandalo raggiunge il leader carismatico che ha riscattato decine di milioni di diseredati: Inácio Lula da Silva, capo del Partido dos Trabalhadores (PT), ex presidente del Brasile, è rinviato a giudizio per riciclaggio e corruzione.

Il nome Petrobras, la grande impresa petrolifera pubblica, appare per la prima volta solo nel gennaio 2014. Un premio alla costanza degli investigatori. Le indagini scoprono che Youssef ha da poco comprato un’auto da 115 mila dollari per conto di Paulo Roberto Costa, ex direttore di uno degli stabilimenti di raffinazione dell’industria statale. Una cifra che non si può permettere un funzionario, sebbene ricopra una posizione di rilievo. Il commissario ha buona memoria.

Ricorda che il potente ex deputato del Partito Progressista a Londrina, José Janene, socio occulto del riciclatore Carlos Habib Charter a sua volta socio di Youssef, nel 2004 aveva piazzato Costa al vertice di uno degli stabilimenti della Petrobras. Le indagini si aprono a ventaglio. «Per la prima volta», dice con la stessa emozione di allora il commissario, «capiamo che si trattava di uno scandalo con una portata storica». Interrogato, Paulo Roberto Costa giustifica quell’acquisto come il corrispettivo di un “servizio di consulenza”. Le carte sequestrate aprono un vaso di Pandora: ci sono migliaia di fatture con la stessa, generica dicitura senza motivazione.

La stanza degli investigatori si trasforma in una centrale operativa. Le pareti si riempiono di grafici, nomi, foto: una rete di collegamenti che si estende fino a disegnare una mappa di due metri per tre. I trasferimenti di denaro all’estero avvenivano tramite 100 società di comodo create negli anni che gestivano, fino a Hong Kong e la Cina, una selva di conti correnti bancari con milioni di dollari. Le società simulavano importazioni ed esportazioni con il solo scopo di muovere il contante. I bonifici non saldavano alcuna partita di prodotti e nessun servizio erogato. Pura cosmetica finanziaria. Neanche tanto sofisticata. Il denaro, secondo le indagini, proveniva principalmente dal traffico di droga e di diamanti e in parte dalle commesse pubbliche.

Tutto era stabilito con precisione, secondo un meccanismo oliato. Anche la percentuale era stata fissata al 3 per cento. Il denaro veniva pulito e tornava a casa seguendo il filo a ritroso per poi essere distribuito con un sistema, semplice ma ingegnoso, difficile da scoprire nella ragnatela del riciclaggio: impianti di benzina, lavanderie, hotel.
Il 17 marzo 2014 esplode il “petrolão”. La polizia federale di Curitiba arresta 24 persone per evasione fiscale in sei differenti Stati del Brasile. La Petrobras salta fuori tre giorni dopo quando si scopre che Paulo Roberto Costa, arrestato anche lui, stava distruggendo le carte sui suoi rapporti con Youssef. Le prove sono schiaccianti. Entrambi rischiano fino a 20 anni di carcere. La vecchia conoscenza della polizia è tra l’altro recidivo. Lo sbatteranno in cella e butteranno la chiave. Sergio Moro ricorda bene cosa accadeva ai tempi di Mani Pulite. È attento alle procedure, analizza prove e riscontri. Si muove con discrezione. Osa quando può permetterselo, rintuzza deciso le critiche che gli piovono subito addosso. In Italia il fiume delle indagini prendeva spesso rivoli pericolosi. Le manette scattavano senza badare molto alle garanzie. Ma la pressione del carcere induceva spesso gli indagati a parlare. Fa parte delle regole del gioco. Accade in tutto il mondo.

Youssef e Costa decidono di parlare. Il codice penale ha introdotto la figura del collaboratore. Sono previsti forti sconti di pena. Entrambi coinvolgono l’amministratore delegato dell’impresa di ingegneria Toyo-Setal, Giulio Camargo, che si rivela una fonte preziosissima. Sarà lui ad aprire uno squarcio sull’intera struttura operativa di “Lava Jato”: l’esistenza di un “club”, come lo chiamavano, di 13 imprese di costruzioni che si dividevano i contratti per la realizzazione degli impianti dell’industria petrolifera di Stato.

Tra queste ci sono otto delle dieci maggiori imprese del paese: quelle che danno lavoro a milioni di impiegati e operai, che contribuiscono a metà del Pil. Per almeno dieci anni, il 3 per cento delle commesse era stato distribuito a tutti i partiti. Nessuno escluso. Denaro pubblico, dei contribuenti. La crescita dell’economia, la ricchezza diffusa tra la gente, la nascita di una classe media che si era riscattata dalla miseria, facevano distrarre una popolazione tutta proiettata verso un futuro finalmente diverso.

Il Procuratore generale della Corte dei Conti colse subito le avvisaglie della tempesta in arrivo. Nella sua relazione del 2013 dichiara: «Se le industrie coinvolte fossero giudicate non idonee per firmare dei contratti pubblici, lo sviluppo del Brasile si fermerebbe».

Lo scandalo esplode. Il 14 settembre scorso arriva la svolta. I dirigenti di 21 grandi imprese del paese sono arrestati per corruzione e riciclaggio, accusati di aver intascato 23 mila milioni di dollari come tangenti dalla Petrobras. La stampa lo battezza il “Giorno del Giudizio finale”. Precede di 24 ore il giorno della festa per la proclamazione della Repubblica. Non è casuale. Antonio Di Pietro sorride: «A volte», dice, «la simbologia serve».

Già, la simbologia: la montagna di denaro passava per un piccolo sportello di cambia valute in una stazione di servizio alla periferia di San Paolo. Era di Alberto Youssef, il Mario Chiesa sudamericano. Aveva quel classico, anonimo negozio con la scritta “Change”. Fuori, la fila di auto aspettava il turno per il “lava jato”, il lavaggio automatico.