Joshua Kaufman, tra gli ultimi superstiti del lager tedesco, ci racconta quel 29 aprile 1945 in cui si trovò davanti i giovani soldati Usa che avevano aperto i cancelli del campo. La sua storia, e quella delle reclute che scoprirono l'orrore nazista, è diventata un documentario di History Channel in onda il Giorno della Memoria

Un vecchio cammina accanto a una spiaggia. E' alto, ancora forte. Va incontro a un anziano che si aiuta con un deambulatore. Gli stringe la mano, gli fa una carezza sulla guancia e si china a baciargli le scarpe in segno di riconoscenza, nella luce chiara della California. Il documentario 'Gli eroi di Dachau', che History Channel (canale 407 di Sky) trasmette alle ore 21 del 27 gennaio si apre con quest'immagine potente. I due si chiamano Joshua Kaufman e Lee Gillespie: uno è ebreo, di origine ungherese, naturalizzato americano. L'altro è nato e vissuto nella campagna Usa. Non si incontravano dal 29 aprile 1945 quando Gillespie, giovanissima recluta dell'esercito statunitense, fu tra i soldati che aprirono i cancelli del lager di Dachau, vicino Monaco di Baviera. Con i suoi compagni si trovò davanti un orrore a cui non era preparato: corpi ammassati ovunque, un treno merci pieno di cadaveri di prigionieri trasferiti da Buchenwald e pochi superstiti ridotti a fantasmi dalla malattia e dalla denutrizione: “le braccia e le gambe come manichi di scopa”. Joshua Kaufmann era tra quei sopravvissuti.

La realizzazione de 'Gli eroi di Dachau' è l'occasione che li ha riuniti dopo oltre settant'anni, per raccontare, con immagini d'archivio e interviste ad altri superstiti ed ex soldati, l'ascesa del nazismo, lo sterminio degli ebrei europei, il pesante fardello di memorie che chi si è salvato ha portato con sé e la liberazione del campo che fece da modello agli altri lager del Reich.

Nelle riprese degli operatori dell'esercito alleato recuperate per 'Gli eroi di Dachau' si vedono i soldati di fanteria procedere cauti verso il filo spinato di quella struttura di cui sanno assai poco: l'erba piegata sotto i loro corpi schiacciati a terra, i fucili in avanti, i volti tesi per cogliere le mosse del nemico. La telecamera li segue mentre scoprono i vagoni dei treni merci dei prigionieri e infine il lager, tra masse di cadaveri abbandonati e i superstiti sbigottiti, molti incapaci di muoversi per l'inedia e le malattie, portati a braccio come bambini dai militari alleati. Immagini fortissime e già note, cui la voce di chi le ha vissute restituisce forza e verità.

La voce di Joshua Kaufman, raggiunto nella sua casa di Los Angeles, nonostante gli ottantotto anni è sorprendentemente limpida e assertiva. “Non mi chieda se mi ricordo di quel giorno. Non è qualcosa che si possa dimenticare. Già da qualche tempo c'eravamo resi conto che la guerra stava finendo ma avevamo il terrore di non arrivare vivi alla liberazione. E in effetti alcuni morirono quel giorno: mangiarono qualcosa che veniva loro offerto dai soldati ed erano così deboli che la dissenteria li finì. Io non riuscivo neanche a camminare e non potei fare allora quello che ho fatto adesso: baciare le scarpe di uno dei ragazzi che mi salvò la vita”.

Cresciuto in una famiglia molto religiosa di un piccolo villaggio ungherese, Kaufman ha perso nella Shoah tutti i familiari tranne il padre. “Prima che ci deportassero, cercai di metterlo in guardia: gli dissi scappiamo, i nazisti ci faranno fuori tutti. Eravamo abituati a essere maltrattati: io, mio padre, i miei fratelli spesso venivamo picchiati per strada dai nostri vicini cristiani solo per il fatto di essere ebrei. Ma io sentivo che questa volta era diverso. Lui non volle ascoltarmi, era un uomo pio e non faceva nulla di importante senza consultare il rabbino. Quello gli disse che sarebbe passata, che non ci sarebbe successo niente. Così finimmo ad Auschwitz e io, da lì, a Dachau”.

Appena sedicenne, Kaufmann aveva capito che solo fingendosi più adulto e abile al lavoro avrebbe avuto una speranza di scampare alla morte. Solo negli ultimi anni ha avuto la forza di raccontare cosa gli accadde nei lager. “Quando mi feci una famiglia, in America, non avevo la forza di dire alle mie figlie che ero un sopravvissuto della Shoah. Come potevo raccontare a quelle meravigliose, perfette e ignare bambine americane che avevo separato l'uno dall'altro i corpi usciti dalle camere a gas e irrigiditi dal gelo spezzando loro le ossa, perché i tedeschi potessero bruciarli? Come potevo dire che avevo frugato i vestiti dei miei compagni che si suicidavano contro la rete elettrificata per cercare qualcosa da mangiare? Come spiegare che i nazisti volevano che diventassimo animali? Per anni mi sono semplicemente chiesto che senso aveva che io non fossi morto e altri sì”. Una volta adulte le figlie hanno convinto il signor Kaufman a testimoniare la sua esperienza. E' stato in Germania, ha parlato davanti ad Angela Merkel e ha partecipato a questo film. “Non sono un attore, non lo faccio per il piacere di stare su un palcoscenico. Ma è importante che le giovani generazioni sappiano” commenta oggi.

Alla fine del documentario, superstiti e soldati sono ripresi mentre entrano insieme a Dachau nel settantesimo anniversario della liberazione e parlano davanti a studenti di varie nazionalità. Sono uomini anziani ma la luce degli occhi è la stessa di allora. Si stringono gli uni agli altri come amici d'infanzia per cui ogni istante passato insieme sia prezioso.

Prima di chiudere il nostro colloquio, Joshua Kaufman ci tiene a dire ancora una cosa: “Non credo in Dio. Credo solo nei soldati che mi hanno salvato a Dachau”.