Decine di migliaia di persone. Che nascono ?in un corpo maschile sentendosi donne o viceversa. Per secoli sono state emarginate, discriminate, considerate fenomeni da baraccone. Ora chiedono di vivere come tutti

Certo, «un insulto ti può ferire, ma quello che trovo più offensivo è che tante persone possano ancora definirmi “un” trans». Elena Trimarchi, fiorentina, calca su quell’articolo maschile: «Ho sofferto per diventare quello che mi sono sempre sentita, una donna, e spesso mi trattano come se appartenessi a un branco indifferenziato, un fenomeno da baraccone utile solo per la cronaca nera o il gossip. Per l’informazione siamo “il trans rapinato”. Oppure tutte prostitute, l’estremo rifugio per mariti annoiati».

Non è così. Da Catania a Genova, da Taranto a Padova, le persone transgender stanno combattendo una battaglia silenziosa, che a piccoli passi le sta portando verso l’integrazione. Non è facile, però: la strada è lunga, fatta talvolta di solitudine, incomprensioni familiari, violenze e discriminazioni. Ma accanto ai drammi e alle sofferenze, ci sono storie di riscatto. Cioè semplicemente di vita normale. Negli uffici, nelle fabbriche, nelle università. E chi è transessuale sempre più spesso tende a non nascondersi più.

Come Vittoria Vitale, catanese di 24 anni. Studia Scienze della Comunicazione nell’ateneo della sua città e ha avviato la transizione verso una piena identità femminile a 18 anni. Ma sulla carta di identità è ancora “Giuseppe” e questo l’ha esposta anche a situazioni imbarazzanti: «A un esame», racconta, «il professore faceva l’appello: quando ha chiamato “Giuseppe” e io mi sono alzata, tutti si sono voltati e mi hanno squadrata dalla testa ai piedi». Poi però, sostenuta dall’associazione studentesca Lgbtqi, Vittoria è riuscita a ottenere dal rettore un libretto provvisorio in cui è registrata con il suo nome femminile.

Ma la discrepanza tra la carta di identità e l’aspetto fisico a volte è un problema più grosso. Ad esempio, quando si cerca lavoro. Michela è veterinaria e racconta di aver sostenuto molti colloqui, tre dei quali sembravano andati a buon fine: «Ma non mi avevano ancora chiesto i documenti: quando hanno scoperto che ero transgender, il posto è andato ad altri».

Per questo il Movimento italiano transessuali chiede di cambiare la legge perché si possa ottenere il cambio di sesso e di nome sui documenti indipendentemente dall’intervento chirurgico e senza l’autorizzazione del giudice (l’attuale normativa impone questi passaggi). Basterebbe insomma un iter certificato dal sistema sanitario. Il problema c’è: secondo i dati diffusi da Arcigay e dallo stesso Mit, in Italia negli ultimi dieci anni il 45 per cento di trans ha visto respinta la propria candidatura a un colloquio di lavoro a causa del proprio genere e il 25 per cento è stato addirittura licenziato. Elena Trimarchi, di Firenze, racconta ad esempio che a lei hanno sempre sbattuto la porta in faccia: «Mi sono rivolta alle coop rosse, senza risultati. Poi mi ha assunto, in nero, una famiglia bene, come segretaria di un noto studio medico: ma i figli hanno saputo che ero un’attivista trans e mi hanno cacciata».

Un destino simile sembra quello di Alexandra Petanovic, originaria di Belgrado. Fuggita dalla Jugoslavia nel 1994, durante la guerra civile, Alexandra arriva in Italia e qui compie la sua transizione da uomo a donna. Poi si laurea e prende il dottorato all’Università pontificia, scrive un saggio accademico su Elena Dragas, l’ultima imperatrice bizantina, ma quando chiede un posto all’università l’incanto finisce. Oggi fa la badante. Due anni fa è stata protagonista di un brutto episodio di transfobia ad Ardea, vicino a Roma: un gruppo di naziskin prima l’ha insultata e poi le ha fatto trovare l’auto devastata, con due banane e un cumulo di feci sul tettuccio.

Differenti, e a lieto fine, sono invece le storie di altre persone transgender, che dopo una sofferta transizione sono riuscite a integrarsi. Alessandro Iuliano, 41enne di Padova, racconta di non aver mai subito discriminazioni: «Forse perché chiarisco sempre chi sono», dice. Alessandro lavora da 17 anni in una impresa metalmeccanica di oltre 300 dipendenti, dove è assistente post-vendita. «Una volta deciso di compiere il percorso, ho incontrato il direttore generale, accompagnato da un sindacalista Cisl. Poi ho fatto un lungo tour, ufficio per ufficio: ho spiegato che “Lisa” andava via e che ora c’era Alessandro. L’hanno presa tutti bene, anche il presidente».

Stessa accoglienza positiva per Angelo Borrelli, napoletano di 36 anni. Dal 2001 lavora per una grossa catena di ristorazione autostradale, a Parma. «Ho compiuto il percorso continuando a spostarmi dalla cassa al bancone, con i manager, i colleghi e i clienti che mi seguivano giorno per giorno. Nessun problema. E alcuni si sono complimentati, dicendo che avevo avuto coraggio».

Ben inseriti, a Cagliari, sono Arianna Ghiglieri e Marco Michele Angioni, entrambi transgender e legati da una relazione sentimentale: 35 anni lei e 24 lui, hanno dovuto affrontare nell’adolescenza la contrarietà di alcuni familiari, ma poi tutto è filato liscio. Arianna segue le istruttorie per un’agenzia di finanziamenti: «Mai subito discriminazioni sul lavoro», dice, «ma so che il problema per altri esiste, infatti partecipo alle iniziative pubbliche per i nostri diritti». Marco è dipendente di una nota catena di ristorazione: «Inviai un curriculum “al maschile”», racconta, « e solo alla fine del colloquio rivelai che c’era un problema: i documenti erano al femminile. Il capo, che aveva lavorato negli Stati Uniti, mi rispose tranquillo: “Ritorna domani che cominciamo”».

Difendere le persone trans può diventare una professione: e così Alessandra Gracis, avvocatessa trevigiana, anche lei transgender, ha tra i suoi clienti una ventina di ragazze operate in tutta Italia; si tratta di cause avviate contro diversi ospedali, per gravi danni riportati in seguito alla vaginoplastica. Alessandra aveva sposato Roberta prima di iniziare la transizione e per ora ha deciso di non adeguare i propri documenti: «Se lo facessi si annullerebbe il vincolo coniugale. Quindi perderemmo diritti preziosi come la pensione di reversibilità». Già, perché «anche le persone transessuali invecchiano», come fa notare Mirella Izzo, di Genova, attivista storica: «Abbiamo una vita oltre le tette», dice, «ma spesso la passiamo in solitudine, con pochi soldi, senza nessuno che ci assista». Su questi temi Izzo ha scritto un libro: “Oltre le gabbie dei generi. Il manifesto Pangender”.

Miki Formisano, di Taranto, è invece un rappresentante di commercio: ha attraversato una giovinezza turbolenta, fatta di eroina e carcere. Ha contratto l’Hiv ed è sopravissuto alla malattia conclamata. Oggi sta bene, va regolarmente in palestra, ha trovato una compagna, Marilena. Aiuta le persone sieropositive e anima campagne di sensibilizzazione nelle scuole.

Leda Peirano, camionista di Savona, amava travestirsi fin da quando aveva 13 anni. Ha continuato a farlo in età adulta: sempre in segreto, perché nel frattempo si era sposato. Quando ha deciso di uscire allo scoperto, la moglie se n’è subito andata. Oggi neanche le tre figlie - di 19 anni, 17 e 11 - vogliono più incontrarla. «Sono sola, ma finalmente me stessa: una donna libera», dice. «Quando vado a scaricare il camion mi presento con garbo: e nessuno fa battute. Se spieghi chi sei, gli altri ti rispettano». Ed è questo che le persone transessuali oggi chiedono più di ogni altra cosa: il rispetto.