Presentati i risultati della ricerca condotta dall'International Food Policy Research Institute. Sul fronte della lotta alla povertà e alla denutrizione nel mondo si continuano a registrare progressi. Ma con un ritmo molto inferiore agli obiettivi. Mentre i paesi industrializzati ogni anno gettano nella spazzatura 1,3 miliardi di tonnellate di cibo

In Vietnam hanno adottato il Vac, una sigla che nella lingua locale (Vuon, Ao, Chuong) sta per «agricoltura, acquacoltura e allevamento». In poche parole, alle famiglie è raccomandato di avere uno stagno con i pesci, con accanto galline e animali che contribuiscano alla fertilizzazione e un orto con colture a rotazione. Come risultato, dal 1990 a oggi, il Vac ha ridotto la percentuale dei vietnamiti denutriti dal 47% al 9%, l’insufficienza di peso infantile di due terzi e la mortalità sotto i cinque anni di oltre la metà.

Nello stesso arco temporale, alcune regioni indiane come l’Andhra Pradesh e il Rajasthan, hanno visto aumentare i raccolti fra il 70 e il 120%, grazie alla diffusione di nuove tecniche di fertilizzazione. Con un mix di miglioramenti genetici e dei sistemi di allevamento, in Etiopia la disponibilità di latte di capra è cresciuta del 119%, e quella di proteine del 39%.

Negli ultimi vent’anni, il gravoso peso della fame nel mondo è diminuito di un terzo.

A due giorni dalla Giornata Mondiale del Cibo – che si celebra ogni 16 Ottobre in occasione del compleanno della Fao, ormai 68enne – l’International Food Policy Research Institute (Ifpri) pubblica l’ottava edizione dell’Indice Globale della Fame. Ovvero la misurazione, fredda e scientifica, della scarsità di proteine, grassi e carboidrati nei singoli paesi del mondo. Il cosiddetto Ghi (Global Hunger Index) è la media fra la percentuale della popolazione denutrita, quella dei bambini sottopeso e quella di coloro che muoiono prima dei cinque anni. L’indice va da 0 a 100: sotto quota 5 è basso, sopra quota 20 è «allarmante».

Almeno in questo caso, non ci sono dubbi: il bicchiere è mezzo vuoto. Se negli ultimi venticinque anni il numero degli affamati è diminuito di un terzo, nel mondo restano – secondo le stime della Fao – 870 milioni di esseri umani che combattono con la fame e con la vita malsana che questa comporta: in un mondo con sette miliardi di abitanti, vuol dire una persona ogni otto. «I progressi compiuti a seguito della crescita economica hanno ridotto il numero di bambini sottopeso», scrive Giangi Milesi, presidente del Cesvi, l’organizzazione non governativa che ha curato l’edizione italiana dell’Indice Globale della Fame. «Ma il risultato non è duraturo: permangono diseguaglianze sociali e di genere, le principali cause della sottonutrizione infantile».

Dal 1990, i valori del Ghi si sono fortemente ridotti in Cina (-58%) proprio grazie alla vistosa sterzata della sua economia. In Thailandia e in Vietnam, sono scesi addirittura del 77%. Nell’Africa subsahariana, un solo paese, il Ghana, ha visto scendere l’indice della fame del 68%. Anche se il record (-77%) spetta al Kuwait per un puro dettaglio statistico: nel 1990 era sotto l’invasione irachena.

Resta il fatto che nel Paraguay il Ghi è salito del 9 per cento. Nel Burundi del 15% e nello Swaziland del 38%. Diciannove Paesi hanno ancora un livello di fame «estremamente allarmante» o «allarmante»: fra questi, con Eritrea e Burundi largamente in testa, ci sono Tanzania, Mozambico e tutti i paesi dell’Africa centrale. C’è la piccola Haiti, ma anche un paese immenso e popoloso come l’India.

Il mondo ha fatto qualche progresso, ma il guaio è che questa tendenza si è rallentata dal 2008, quando la crisi economica e finanziaria del mondo ricco s’è riverberata in quello povero. «Se si riuscisse a invertire il recente rallentamento, allora l'Obiettivo di Sviluppo del Millennio potrebbe essere a portata di mano», dice Shenggen Fan, direttore generale dell’Ifpri. La Millennium Declaration, firmata in pompa magna da tutti i capi di Stato delle Nazioni Unite nel 2000, prometteva di dimezzare la percentuale degli affamati fra il 1990 e il 2015: ormai mancano meno di due anni.

«Ma siamo ancora lontani – aggiunge – dal più ambizioso obiettivo del World Food Summit del 1996 di dimezzare nello stesso arco di tempo il numero totale di affamati». Perché le percentuali possono trarre in inganno: la percentuale degli affamati si è oggettivamente ridotta di un terzo. Ma, con la contemporanea galoppata demografica, i numeri assoluti non sono altrettanto diversi: 870 milioni di affamati oggi, un miliardo ieri.

L’edizione 2013 dell’Indice Globale della Fame contiene una lunga lista di raccomandazioni per aumentare la resilienza delle popolazioni che combattono con la scarsità di proteine, principale oggetto del rapporto. «È ormai chiaro che non basta aiutare le popolazioni povere e vulnerabili a sopravvivere agli shock a breve termine», si legge. «Le popolazioni povere e vulnerabili devono incrementare la propria resilienza; e una parte essenziale del processo di sviluppo della resilienza consiste nel rafforzare la sicurezza alimentare e nutrizionale».
Come dimostrano il Vac vietnamita, i fertilizzanti indiani e le capre etiopi, nulla è veramente impossibile. A maggior ragione in un mondo sempre più globale e interconnesso, dove la fame non è dovuta alla scarsità di alimenti, ma alla loro pessima distribuzione.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, ogni anno 1,3 miliardi di tonnellate di cibo – circa un terzo della produzione mondiale, pari a più della metà dei raccolti cerealicoli planetari – finiscono nelle discariche del mondo industrializzato.