A molti questo Paese fa venire in mente solo guerra e miseria. E i poveri ci sono ancora, naturalmente, ma l'economia è in pieno boom. E Luanda, la capitale, è diventata una città vivace, piena di locali e con campus all'americana

Alle sette del mattino, gli operai cinesi dei cantieri che circondano la facoltà di Diritto dell'università Agostinho Neto già sono al lavoro da un pezzo. Mentre il sole si fa strada a fatica dietro alla coltre spessa di polvere e fumo che sbianca il cielo di Luanda, la capitale dell'Angola già ansima, spinge, inchioda, corre e suona il clacson.

Ma quando i violini dell'orchestra attaccano Beethoven, i martelli pneumatici si concedono un attimo di tregua. E anche gli operai cinesi si affacciano dalle impalcature a guardare. Nel cortile della facoltà, si celebra la cerimonia di consegna del diploma per 250 neolaureati in legge. La futura classe dirigente angolana suda sotto le toghe di raso nero, scatta foto con i cellulari e aspetta di prendere in mano le redini di un Paese di oltre 12 milioni di abitanti e 1.246.700 chilometri quadrati, con risorse immense (l'Angola è il quarto produttore al mondo di diamanti e, insieme alla Nigeria, il primo produttore africano di petrolio) e il più alto indice di sviluppo di tutta l'Africa (più 13 per cento del Pil nel 2009).

Dietro al palco, Adelino Costa, 30 anni, rappresentante degli studenti, beve un sorso d'acqua prima di cominciare il suo discorso. Ha la gola secca dall'emozione. Deve parlare a una platea di professori, generali e ministri. Di padri col nodo della cravatta stretto e di madri con i tacchi alti. Di nonne arrivate dalle campagne con gli abiti più pregiati e di sorelle minori con complesse costellazioni di corallini sulla testa. Deve rivolgersi ai propri colleghi, impazienti di lanciare i pomposi cappellini per aria e di trovare un impiego in una compagnia petrolifera.


Deve convincere tutti che questo è il tempo della Nova Angola: un Paese uscito nel 2002 da quasi trent'anni di guerra, dove in meno di un decennio di pace gli studenti universitari sono cresciuti da 9 mila a 60 mila. Dove il governo (insieme a Cina e Portogallo) ha investito centinaia di milioni di dollari per costruire il più grande campus del continente africano: 25 mila ettari di terra alla periferia della capitale, su cui sorge una struttura che comprende una residenza da 17.500 posti letto, laboratori, auditorium, impianto sportivo e biblioteca, in cui, dal prossimo anno accademico, si trasferiranno gli studenti della Agostinho Neto. Un Paese dove le fortune si fanno e si disfano in un giro di luna, e, nell'entusiasmo di un dopoguerra dopato dai dollari del petrolio, tutto sembra possibile.

Quando Adelino arriva alla fine del suo discorso - "Il futuro appartiene a chi crede nei sogni" - e scema l'eco dell'ultimo battito di mani, i martelli pneumatici già hanno ripreso a picchiare. Luanda ha riacceso il motore. La città più cara del mondo per gli stranieri che vi abitano (le case si vendono a 12 mila dollari al metro quadro e un panino in un fast food arriva a costare l'equivalente di 20 dollari) non ha tempo da perdere, se vuole guidare la Nova Angola verso il progresso: ci sono altri baobab da sradicare per allargare i margini dell'area urbana e costruire nuove case per gli oltre cinque milioni di abitanti (aumentano al ritmo del 7 per cento annuo). Ci sono altri banchi di sabbia da trasportare dalla Ilha do Cabo (la stretta penisola di terra che si allunga nella baia della capitale) per modificare il profilo della costa e far spazio a una nuova autostrada a otto corsie. Altri Suv da importare per far stare comodi i nuovi ricchi nel traffico che soffoca la città a qualsiasi ora del giorno. Altri centri commerciali da tirare su per permettere a chi ce li ha di spendere i propri soldi, e altri hotel a cinque stelle da tirare a lucido per ospitare gli americani, i cinesi, i brasiliani e i portoghesi che arrivano per fare affari. Ci sono le pale di altri condizionatori d'aria da far girare. Perché Luanda dimostri a se stessa che soldi e petrolio possono più del sole d'Africa.


"Questa è la generazione dell'abbondanza, una generazione che vuole tutto e consuma tutto", dice Simao Soindoula, 67 anni, ex professore dell'Agostinho Neto oggi consulente scientifico per l'Unesco: "Noi siamo cresciuti col coprifuoco, i giovani di oggi, invece, escono di casa e hanno il mondo a portata dei propri desideri: non si guardano mai indietro e credono che la crescita indiscriminata sia l'unico obiettivo", continua Soindoula: "Per questo l'Angola si gioca il proprio futuro sull'insegnamento universitario: dobbiamo trasmettere i valori per cui la mia generazione ha combattuto. Dobbiamo formare medici, avvocati, ingegneri, ma soprattutto, dobbiamo formare gente onesta: altrimenti, questo sarà sempre un Paese corrotto".

La pensa così anche Feliciano Cangue, blogger tra i più seguiti e tra i più critici sull'operato dell'establishment del presidente Dos Santos, leader dell'Mpla - partito che ha guidato il Paese verso l'indipendenza e fuori dalla guerra civile - che, al potere dal 1979, grazie alla recente modifica della Costituzione, potrà restare in carica fino al 2022. Dal suo blog Hukalilile, Cangue ha festeggiato l'investimento del governo nell'istruzione come "l'evento più significativo degli ultimi anni". "Se si radicherà la cultura del cambiamento", scrive Cangue, "se volti nuovi e giovani avranno l'opportunità di sostituire quelli vecchi, in Angola si sentirà finalmente una musica nuova".

Per ora, la musica è quella di un Paese in cui la corruzione (valutata dal Corruption Perception Index di Transparency International vicina al livello massimo) ha contribuito a una distribuzione sbilenca delle enormi ricchezze. Anche se il numero di angolani che vivono sotto la soglia di povertà si è quasi dimezzato negli ultimi dieci anni, tra i pochi detentori di rendite e stipendi milionari e gli ancora troppi che vivono con meno di 2 dollari al giorno (il 38 per cento della popolazione), lo spazio per la classe media è davvero stretto. E proprio lo spazio è il primo problema per i giovani che escono dall'Università: se l'affitto di una villetta economica in periferia supera gli 800 dollari al mese e lo stipendio medio è di 500 dollari, per molti l'unica soluzione è restare a casa con i genitori.

Ma la musica, che batte in tutti gli stereo d'Angola - dai mousseque (le enormi baraccopoli che ospitano centinaia di migliaia di persone fuggite dalle campagne durante la guerra) fino ai condos di lusso - è anche quella di Yannick Afroman, rapper autore del disco più venduto nella storia del Paese. "Mentalidade tem que mudar", canta Yannik: se il Paese cambia, anche la mentalità deve cambiare. Di notte, il suo rap tiene sveglia la città, facendo ballare i ragazzi che, nei locali della Ilha, mescolano il rum con gli energy drink per restare in piedi fino all'alba. In pista, si sfiorano corpi lucidi e profumatissimi, le bandidas - ragazze a caccia di mariti ricchi - ondeggiano ammiccando con le facce mezzo nascoste dietro gli occhiali da sole firmati.

Ai tavoli, si incontra gente come Wilson, 33 anni, una delle incarnazioni dello spirito di questa città vorace: laureato in ingegneria elettronica, di giorno lavora come manager per una catena di negozi di giocattoli e di notte si stringe nei pantaloni di pelle nera e si leva la giacca, mostrando i diavoli tatuati che gli coprono le braccia. Nei weekend caldi dello shopping, i suoi negozi arrivano a incassare più di 50 mila dollari, e a lui piace pagare da bere per tutti e lasciare grosse mance ai ragazzini che si affollano intorno al suo fuoristrada per lucidargli i fari. "Qui sei quello che hai", dice: "L'importante è che gli altri vedano quanto sei ricco, solo così ti rispetteranno".

Al suo fianco, c'è la fidanzata Jin, 26 anni, arrivata dalla Corea del Sud per lavorare in una delle tante società immobiliari con capitale straniero, e l'amico Ecumbi, 30, montatore e produttore cinematografico. Wilson sogna di trasferirsi a Seul con Jin "perché Seul non si ferma mai, corre più veloce di Luanda". Ecumbi, invece, a lasciare il suo Paese non ci pensa affatto: "Mi sento in debito. Siamo stati in guerra per quasi trent'anni, adesso è tempo di ricostruire, non possiamo andarcene".

Quando anche l'ultimo sorso di cocktail è stato consumato e il dj avvisa tutti che è l'ora di andare a casa, il buio della notte già vira al rosa. Tornando dalla Ilha verso la città, dai finestrini della macchina di Wilson Luanda sembra bellissima. Nel sottile intervallo di pace in cui le gru dei cantieri ancora se ne stanno appollaiate immobili e gli operai cinesi si concedono una brevissima pausa di sonno, la Kianda - la sirena, come la chiama la gente di qui - riposa e luccica come Rio, Miami, Los Angeles. "Guarda la città adesso com'è bella", dice Wilson: "Vorrei vederla sempre così. Invece, appena spunta il sole, viene fuori tutto il marcio, tutto quello che non funziona. Qui c'è ancora tanto da fare: ma la Nova Angola sta correndo".