Costruisce le liste per le Europee a sua immagine. Cavalca tutti i temi, dal lavoro alla pace, per fermare la concorrenza di Schlein. Ma rischia di finire in un patto non scritto con Meloni

Che fine ha fatto Giuseppe Conte? È passato giusto un anno dall’ennesimo atto auto-fondativo del personaggio più versatile della politica italiana: la compartecipazione alla caduta del governo Draghi e, subito dopo, alla distruzione del centrosinistra. Da allora l’ex avvocato del popolo, col suo partito personale che fu grillino, sembra fermo al ruolo di chi sta tra le macerie, senza un progetto. Come il personaggio interpretato da Robin Williams nel dolente Woody Allen di “Harry a pezzi”, pur dandosi molto da fare ha contorni poco nitidi, manda in tilt le lenti auto-focus delle telecamere, appare perennemente sfocato. Comparsa di rango di un orizzonte che però nei suoi progetti dovrebbe vederlo protagonista.

 

Ma protagonista di che? A parte qualche parola d’ordine, nulla di preciso, neanche come suggestione. E anche questa forse è una strategia: basti vedere quanto invece sia forte il patto non scritto con la destra, una costellazione che si può comodamente tracciare unendo fra loro i voti espressi in Consiglio di amministrazione Rai dal consigliere grillino Alessandro di Majo; o notare come la precipitosa proposta M5S di una mozione di sfiducia nei confronti di Daniela Santanchè abbia finito per compattare una maggioranza che era verso la ministra del Turismo per lo meno fredda, soprattutto dal lato della Lega, quando non in esplicito imbarazzo.

 

Quanto alle mancate suggestioni, Conte non era, per dirne una, alla chiesa di San Pietro e Paolo all’Eur, per i funerali solenni di Arnaldo Forlani, al quale pure tante volte è stato accostato, per via dell’eloquio e non solo («un trapezista doroteo che ricorda Forlani», ebbe a definirlo Gian Antonio Stella, al suo esordio al Senato), del resto lui stesso ha già molto attutito l’ammicco col quale sottolineava le frequentazioni giovanili di stampo democristiano e gli studi a Villa Nazareth. Per passare all’altro versante delle grandi ideologie (Conte nelle sue evoluzioni nulla risparmia), è quasi sparita anche tutta quell’aria da aspirante Enrico Berlinguer che a un certo punto l’ex premier Zelig si era dato, quando aveva intravisto la possibilità di raccogliere, come a fare la scarpetta col pane in fondo al piatto, i pezzi di sinistra residuati dal trauma elettorale del settembre 2022.

 

«Credo che alcune battaglie fondamentali portate avanti da Berlinguer noi stiamo dimostrando coi fatti di portarle avanti», osò dire il 2 febbraio, in visita al “M5S lab” di Ostia, davanti alla foto del segretario del Pci sistemata su un muro bianco proprio sotto la sua. Girava in quel periodo volentieri con la sciarpetta blu attorno al collo e l’aria malinconica, faceva il tour a Scampia per la difesa del reddito di cittadinanza (poi abolito dalla destra), protestava per lo smantellamento del bonus 110 per cento (sempre Meloni, ma già Draghi avrebbe voluto), stava incollato alla Cgil di Maurizio Landini, a Napoli come a Roma, guardava  il Pd dall’alto in basso augurandogli un congresso «vero», a carattere «rifondativo» - proprio lui, che è stato eletto presidente del M5S con il 93 per cento, candidato unico alla carica, i voti certificati dal suo notaio di fiducia, Alfonso Colucci, ora ovviamente parlamentare.

 

L’ha scrollato dal sogno di estendersi a sinistra la vittoria di Elly Schlein (il congresso «vero» appunto: bisogna sempre stare attenti con gli auguri, rischiano di avverarsi): tuttora Conte sembra non aver tanto chiaro da che lato accostarla, forse perché si tratta di una donna e lui - nella maschia politica italiana - non è abituato.

 

Dopo il corteggiamento a favore di telecamera e il distacco a favore di telecamera, adesso Conte tende a tenersi lontano appena può da Schlein, ma riesce a evitarla sempre meno. Lei lo tallona, forse per sgonfiarlo. Lui fa appello a tutta la sua sapienza avvocatesca per dimostrare in ogni situazione che lui era arrivato prima, aveva già elaborato, aveva già presentato. Emblematico in questo senso, due settimane fa, il desiderio (realizzato) di comparire come primo firmatario della proposta di legge unitaria delle opposizioni sul salario minimo, la prima dopo una ventina di testi proposti dai singoli partiti nel corso di tre legislature. Può apparire puerile: ma in ballo ci sono comunque gli elettori M5S, meno abbarbicati al loro leader come potrebbe sembrare, soprattutto dacché il Pd è guidato da Schlein. Voti contendibili insomma.

 

Per capire il grado di problematicità della militanza grillina, bastava sentire le parole pronunciate il 17 giugno dal palchetto ai Fori imperiali da Beppe Grillo, rivolto ai partecipanti della manifestazione contro il precariato: «A voi vi hanno raccattato in qualche bocciofila! Abbiamo mandato i pullman! Io mi ero prefisso nella vita di non dover mandare i pullman a prendere qualcuno per farmi sentire, purtroppo è successo, me ne assumo la responsabilità, ma a Roma hanno triplicato i prezzi per dormire».

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Una fotografia spietata, tra il serio e il faceto (poi oscurata dall’evocazione delle «brigate di cittadinanza»), che corrispondeva a una situazione evidente, osservando l’intero corteo e non solo l’ammucchiata fatta opportunamente radunare attorno all’ex premier per dare l’idea opposta (materia nella quale i Cinque Stelle restano maestri): lungo il breve tragitto, più vuoto che pieno, latitavano gli attivisti spontanei, c’erano soprattutto quelli inquadrati, i pullman appunto. Raccattati «in qualche bocciofila», a stare alla celia grillina.

 

Le folle oceaniche di piazza San Giovanni sono in ogni caso sbiadite, per i Cinque Stelle. In Parlamento non siede più nessuno di coloro che festeggiarono sbigottiti la prima fragorosa vittoria elettorale nei sotterranei dell’hotel Saint John, nel febbraio 2013. In attesa che le liste per le Europee del 2024 rendano i Cinque Stelle un partito-fotocopia del leader anche a Bruxelles -per ora come volti-simbolo del casting girano i nomi del presidente Inps Pasquale Tridico, del direttore de “La Notizia” Gaetano Pedullà, dell’ex direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio - c’è il fatto che tra gli adesso ottanta parlamentari di M5S, trentuno sono al primo mandato: fedelissimi di Conte, nella maggior parte dei casi devono tutto all’attuale leader; i più anziani, per via del limite dei due mandati, sono entrati comunque nell’epoca sua, hanno conosciuto le stagioni del governo grillino, dal 2018 in poi. Risultato: si stenta a riconoscere una faccia. Non c’è Roberto Fico, relegato al ruolo di padre nobile nonostante l’età tuttora incongrua per il ruolo, non c’è Paola Taverna (collaboratrice parlamentare come Vito Crimi), non c’è più neanche Nunzia Catalfo, che per dieci anni ha depositato le proposte di legge sul salario minimo (la prima a firma Conte, all’inizio di questa legislatura, era la fotocopia della sua). Non c’è in generale nessuno riconoscibile, a parte l’ex premier, il suo braccio destro Stefano Patuanelli, l’ex sindaca di Torino Chiara Appendino - la cui ascesa continua a essere azzoppata dalle sentenze su piazza San Carlo - e, a tutto concedere, la giovane Vittoria Baldino. A Roma Virginia Raggi continua a essere mal vista e considerata una potenziale traditrice, Alessandro Di Battista direttamente un competitor, adesso per via dell’associazione culturale Schierarsi che al momento appare tuttavia in stand by (forse essendo Dibba in viaggio-reportage dal Sudamerica, tanto per cambiare: gli ultimi post lo davano nel lebbrosario di San Pablo Loreto, Amazzonia peruviana, dove fu volontario Che Guevara, figuriamoci).

 

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Conte d’altra parte non sembra avere un vero interesse a riorganizzare il partito dotandosi di un gruppo dirigente vero. E questo nonostante i risultati magrissimi delle elezioni locali, un punto debole ora diventato un punto tragico dei Cinque Stelle. Nelle ultime amministrative di maggio, ha calcolato Youtrend, solo in cinque capoluoghi su tredici il Movimento ha superato il 3 per cento, mentre per le Regionali il Molise ha confermato la tendenza in vigore dalla fine del governo gialloverde: i Cinque Stelle non superano il 10 per cento da quattro anni in tutta Italia (unica eccezione, la Sicilia 2022, quando però si votava in contemporanea con le Politiche). A fronte di questo scarso radicamento, l’ultimo annuncio sul «cambiamento già iniziato» riguarda i cosiddetti gruppi territoriali («abbiamo sostanzialmente già nominato i coordinatori regionali e provinciali e sono partiti i primi 84 gruppi territoriali», ha dichiarato Conte, laddove la parola più eccitante è «sostanzialmente»), ma anche l’altrettanto coinvolgente «progetto giovani», che però partirà in via ufficiale soltanto a ottobre. L’opposto insomma dell’estate militante lanciata da Schlein per il Pd. Ennesima dimostrazione di quanto, visti metodi e traiettorie, il centrosinistra che unito potrebbe contendere la vittoria alla destra (secondo gli ultimi sondaggi di Euromedia research sarebbe addirittura un punto sopra) sia in pratica non coalizzabile. O meglio: poco interessato ad esserlo, per lo meno dal lato Conte. Sfocato è bello.