Chi fa della conoscenza il principale cardine dell’esistenza ha come valore la gratificazione che deriva dal riconoscimento della superiorità culturale: perché il fine ultimo resta il pensiero

Qualche anno fa Rainer Zitelmann nel libro “La forza del capitalismo: un viaggio nella storia recente di cinque continenti”, per rispondere alla domanda sulle ragioni storiche dell’approccio così diffuso nella cosiddetta intellighenzia non favorevole all’economia di mercato, affermava che ciò che conduce ad assumere questo atteggiamento starebbe sul piano sociologico nel non riuscire a farsi una ragione del fatto che qualcuno dotato di una «cultura« o persino di un «intelletto» inferiore finisca comunque col guadagnare molto di più di un uomo di pensiero. In buona sostanza, gli intellettuali si sentirebbero offesi nel loro senso di giustizia e riscattati dalla convinzione che ciò debba essere colpa dell’economia di mercato, tanto da essere necessaria una «riparazione» attraverso una corposa redistribuzione della ricchezza.

 

È una visione assolutamente parziale in quanto pone al centro del modello della gratificazione il valore denaro. Chi fa della conoscenza il principale obiettivo dell’esistenza pone più spesso al centro del proprio sistema di valori la gratificazione derivante dal riconoscimento della superiorità culturale, nel senso che il fine ultimo resta il pensiero. Credo, per esempio, che nessuna archistar si indispettisca se una società di engineering ha un profitto cento volte maggiore nel costruire il ponte progettato, come nessun giurista, che passi la vita a studiare le evoluzioni ordinamentali, possa invidiare i grandi studi legali dai nomi esotici (o esoterici) e dall’approccio industriale che sviluppano fatturati mostruosi. Piuttosto, l’uno o l’altro possono indispettirsi se viene giudicato il livello della competenza o della conoscenza sul piano della diversa capacità di produrre reddito. L’attribuzione del primato del pensiero è il vero tema valoriale (e quindi sociologico) alla base della questione. E la ricorrente impostazione, un po’ narcisistica, in senso fisiologico, dell’uomo di pensiero non ha alcuna correlazione col mito di Narciso, ma piuttosto, in psicologia, con un sano amor proprio da cui deriva il profondo bisogno di sentire l’approvazione altrui e la gratificazione derivante dal riconoscimento della superiorità del proprio sapere da parte della comunità di riferimento.

 

D’altra parte, un vero intellettuale può essere un appassionato di sport senza sentirsi minimamente offeso dai guadagni miliardari dell’atleta che mentre allenava il corpo non ha mai allenato la mente.

 

E questo è esattamente lo stesso problema che si pone nel rapporto tra intellighenzia e appartenenza politica. In questi mesi di nuovo governo è infatti ritornata in auge la vecchia polemica sul rapporto tra intellettuali ed ideologia, che più o meno ripete lo schema visto per l’economia. Per cui si afferma erroneamente che non esisterebbe una vera classe intellettuale conservatrice per le medesime ragioni valoriali. E, dall’altro lato, si risponde che molti intellettuali sarebbero degli opportunisti che si comportano come i cortigiani di Alessandro Magno.

 

Al contrario è quanto mai esemplificativo proprio il celebre aneddoto relativo all’incontro tra Alessandro Magno e Diogene di Sinope nella versione di Plutarco, secondo cui, visto che tutte le élite erano andate da Alessandro per congratularsi con lui, questi pensò che anche Diogene, che era a Corinto, lo avrebbe fatto. Ma dal momento che il filosofo continuò il suo otium nel sobborgo di Craneion, Alessandro allora si recò a fargli visita, lo trovò disteso al sole e gli chiese se avesse bisogno di qualcosa. Diogene rispose: «Sì, stai un po’ fuori dal mio sole perché mi fai ombra». Alessandro fu così ammirato dalla grandezza del filosofo che disse ai suoi cortigiani che ridacchiavano: «Davvero, se non fossi Alessandro vorrei essere Diogene». Probabilmente se Diogene avesse ascoltato il commento avrebbe cambiato atteggiamento verso Alessandro fino, forse, a elaborarne il pensiero politico.

 

L’espressione intellighenzia è riferibile alla classe di intellettuali, di origine nobile o borghese, che in Russia, dai primi dell’Ottocento fino al 1917, dette vita al movimento avverso al feudalesimo zarista e dal quale maturò la rivoluzione d’ottobre. Così, quando Lenin creò il suo governo volle che la scienza fosse posta sopra ogni cosa nel nuovo Stato socialista. Trovò la maggior parte degli eminenti scienziati del Paese contro di lui. Ma anche i più contrari, tanto famosi, finirono col rimanere al loro posto grazie alle lusinghe di cui furono oggetto.

 

Una parte dell’imprenditoria e della politica oggi sono poco attrattive per gli intellettuali che non avvertono il riconoscimento della loro superiorità culturale. Quindi è vero che talora la cosiddetta egemonia rispetto alla intellighenzia è figlia di opportunismi e di retaggi ideologici, ma in larga parte è dovuta a questa indifferenza. Se un archistar non si sente riconosciuta superiore rispetto a un appaltatore dei lavori o un maestro del Diritto rispetto ai compilatori di contratti pagati a peso per i famosi deal tutti uguali, ce lo troveremo tendenzialmente contrario ad un certo sistema. D’altra parte se solo guardiamo le cosiddette nomine in certi ambiti, al di là delle persone, troveremo nelle scelte una quantità completamente diversa di intellettuali. Occorre che un certo mondo dell’economia o della politica per cambiare lo status quo faccia autocritica e si chieda, se per assurdo esistessero solo intellettuali liberali (quindi ora liberisti ora statalisti in base alle esigenze di quel determinato momento storico), da quale delle due parti continueremmo a trovare l’intellighenzia in ruoli chiave? E ancora più brutalmente una certa parte di quel mondo si è mai chiesta se riconosce la superiorità del pensiero come fine ultimo o, viceversa, uno vale uno? In tal caso la cosiddetta egemonia diventa un fatto inevitabile. E se pensiamo, dato il momento, a Silvio Berlusconi, il passaggio dalla prima fase di imprenditore-politico alla seconda è stato caratterizzato dalla progressiva e deliberata rinuncia agli uomini di pensiero.