Il Pd da solo non basta, serve un partito che lo affianchi e raccolga i moderati, come fu quello di Francesco Rutelli. Sindaci, Calenda, riformisti. L’ex ministro Guerini e la discreta ricerca di un federatore

La sintesi più esplicita, a sorpresa (e si direbbe non a caso), l’ha data il sindaco di Milano, Giuseppe Sala: «La vera domanda è: cosa deve succedere perché sia contendibile questo Paese? La risposta è facile, difficilissimo renderla reale. C’è uno spazio chiamiamolo di moderati che non è occupato. Quello è il problema: perché anche se il Pd prende il 23 per cento alle Europee, ma l’insieme è lontanissimo dal poter governare, non funziona. Quindi serve qualcosa d’altro», ha detto alla Stampa. Ecco: serve qualcosa d’altro. Non è questione di Pd, più o meno schleiniano. Ma di ciò che potrebbe camminargli accanto. Per quanti voti possa guadagnare il partito del Nazareno, non basterà: servirà qualcosa d’altro, per costruire un centrosinistra che possa contendere alla destra la guida del Paese. Uno scenario che oggi non esiste: un nuovo campo largo non c’è, l’alleanza coi Cinque Stelle non sarebbe comunque sufficiente - ammesso poi che riuscisse, tra i passamontagna evocati da Beppe Grillo e il pacifismo che piace a Putin dell’ex avvocato del popolo. Un gap tra schieramenti tanto più vero adesso che, con la morte di Berlusconi, è in corso la gara per aggiudicarsi le spoglie di Forza Italia, ovvero altri voti d’area moderata: più a destra andranno, più difficile sarà la riconquista.

 

La questione, per quanto possa apparire in teoria rimandabile alle politiche 2027, per ragioni programmatiche e pratiche ha già cominciato ad attraversare il centrosinistra a vari livelli. Chi, come ha predicato Schlein nell’ultima Direzione, riesce a «guardare il Pd anche da fuori». Chi studia il modello del centrosinistra, civico e inclusivo, uscito vincitore dalle ultime tornate di amministrative (gli esempi di Verona e di Vicenza). Chi non è strettamente legato al turno delle Europee 2024 (proporzionali), ma all’arco complessivo del percorso possibile nei prossimi anni: dai sindaci ai saggi, dagli amministratori locali agli ex parlamentari ed ex ministri. Non hanno tutti la stessa idea in testa, ma molti guardano di fatto dalla stessa parte dell’orizzonte.

 

C’è ad esempio chi evoca una «Margherita 2.0», avendo vissuto più o meno da vicino l’esperienza di quella che fu la crasi tra pezzi del vasto mondo tra centrismo e riformismo, ulivismo e cattolicesimo popolare, civismo, ambientalismo, liberalismo: un partito che nacque come lista elettorale, e che fu guidato da un ex sindaco, di storia verde e radicale, come Francesco Rutelli. Con uno spirito non poi così lontano, qualche settimana fa un esponente di punta dei riformisti dem come Lorenzo Guerini, già ministro di Conte e oggi presidente del Copasir grazie all’accordo coi Cinque Stelle, ha cominciato a sondare con estrema discrezione il campo, alla ricerca di un volto non troppo usato, che sia in grado di rappresentare una identità multipla. Un ingrediente nuovo sui percorsi precedenti. Un federatore, insomma.

 

Lontano però dai percorsi di Matteo Renzi. Il rischio di essere risucchiati nel renzismo è in effetti uno dei principali spauracchi di chi si muove in quest’area. Non a caso, da mesi è respinto ogni tentativo dell’ex rottamatore di fare la musa ispiratrice di un progetto centrista che coinvolga le aree più moderate del Pd. Perché, a dirla con le parole di un altro ex della Margherita: «Abbiamo fatto tanto per liberarci di Renzi, adesso non andiamo a mischiarci di nuovo con lui». Si tratterebbe peraltro in questo caso di una operazione antipatizzante, nei confronti del Pd, e non è l’obiettivo. Anzi. Il percorso è quello di un soggetto parallelo che incarni quella che Giovanni Diamanti ha chiamato «l’area vasta del non voto che va intercettata» con un progetto che «non sostituisca il Pd, ma gli sia parallelo».

 

In questo senso, più che Renzi, riscuote interesse uno come Carlo Calenda, meno consumato e meno incline alla svolta a destra. Il leader di Azione è, nonostante tutte le ammaccature, assai più gradito dell’ex sindaco di Firenze nei sondaggi sui volti moderati. Dettaglio che non sfugge a chi lavora sull’area nella quale costruire qualcosa di non ostile ai dem e capace, al contrario, di seguire il verso del Pd schleiniano: la segretaria ha inserito infatti al primo punto del suo programma politico una necessità di «chiarezza sulle posizioni» che lascerà elettoralmente più scoperte alcune aree, su cui lavorare.

 

Si tratta quindi di qualcosa di diverso rispetto al «nuovo partito dei cattolici» invocato variamente, a cavallo delle primarie dem, ad esempio dall’area ex popolare che fa capo a Pierluigi Castagnetti, come una sorta di risposta contro-armata all’insorgere della leadership di Elly Schlein. Né il sapore è quello conflittuale di una scissione, un urto che nessuna delle parti in causa è in condizioni di sopportare (sia pure al prezzo di convivere nella reciproca diffidenza): naturalmente anche questo fantasma agita i dem, ma la faccenda è per ora magnificamente riassunta dal botta e risposta di lunedì in Direzione tra il senatore Alessandro Alfieri che assicurava: «Noi il Pd lo abbiamo fondato e non ce ne andremo», e Schlein che consigliava «mettetevi comodi, siamo qui per restare». Non quindi qualcosa che nasca per impossibilità di stare nel contenitore precedente, ma di una nuova “gamba” che serva per conquistare il potere, altrimenti irraggiungibile. Tanto più adesso che la dissoluzione imminente dell’area berlusconiana di Forza Italia rischia di consolidare ancora di più a destra la leadership di Giorgia Meloni e la prevalenza dei suoi Fratelli d’Italia.

 

È un tema che gli stessi vertici del Pd si pongono, come testimoniano le parole di Elly Schlein – precedenti alla morte di Silvio Berlusconi – a favore di un tentativo di dialogo almeno sui diritti con Forza italia, aprendo a «pezzi di destra italiana che non sono illiberali», per scardinare la maggioranza e vincere in Parlamento qualche battaglia come il matrimonio egualitario e le adozioni. È il segno di quanto sia sotto osservazione l’area moderata, soprattutto per cogliere gli umori di un elettorato che magari sarebbe volentieri morto berlusconiano – del berlusconismo della Casa delle Libertà, dove secondo la vulgata guzzantiana ognuno fa come gli pare – ma non altrettanto amerebbe vivere un orizzonte assai meno laico come quello meloniano.