Il leader di Forza Italia aveva 86 anni ed era stato ricoverato nei giorni scorsi

Cala il sipario su un’esistenza controversa che ha incrociato la storia italiana dell’ultimo mezzo secolo. Silvio Berlusconi è morto a 86 anni, dopo un secondo ricovero al San Raffaele. Il leader di Forza Italia era stato dimesso il 19 maggio scorso dopo 45 giorni tra terapia intensiva e degenza per complicazioni di un’infezione legata alla sua patologia. Era tornato in ospedale il 9 giugno alla vigilia di un vertice di partito per l’aggravarsi del quadro cardiovascolare.

 

Lo stato di salute, del resto, era già compromesso per il lungo strascico delle conseguenze post Covid che già nei mesi scorsi lo avevano condotto più volte al ricovero.

 

IL DOSSIER

 

Quella del politico, fondatore e capo indiscusso di Forza Italia, con intorno una corte di fedelissimi, soggetti a ricambi periodici, è stata l’ultima vita, dal 1994 in poi, del quattro volte presidente del Consiglio.

 

Prima e anche durante, nonostante il formale distacco dalle cariche aziendali, c’è stata la l’ascesa tanto formidabile quanto opaca dell’uomo che ha scardinato il monopolio televisivo della Rai. Che ha creato l’impero Mediaset consegnandolo nelle mani dei figli Marina e Piersilvio all’alba della famigerata discesa in campo.

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Che ha impresso un profondo cambiamento nella società italiana e che ha fatturato l’onda lunga di quel successo, tirandosi fuori dallo tsunami seguito alla dissoluzione dei partiti tradizionali per gli effetti della stagione di Tangentopoli nel 1992 smettendo i panni del munifico finanziatore e indossando quelli dell’uomo di governo. Scelta necessaria. Funzionale alla difesa dei propri interessi. Da qui la creazione del partito con l’ambizione di guidare il Paese.

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Con l’infittirsi dei colpi giudiziari che hanno riguardato ogni aspetto delle sue attività, le controffensive si sono alimentate di leggi costruite apposta per fargli da scudo, stratagemmi per ritardare la celebrazione dei processi, interventi sul codice per spuntare le armi giuridiche brandite dai magistrati con i quali ha ingaggiato una campagna che non ha mai conosciuto momenti di tregua.

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Il ritorno al Senato dopo le dimissioni per gli effetti della legge Severino, gli aveva regalato una sorta di rivincita ma era coinciso con un forte indebolimento della forza trainante della coalizione di centrodestra.

 

L’uomo che aveva sdoganato portando al governo i post missini di Alleanza nazionale, che aveva portato il furore leghista nella stanza dei bottoni, aveva dovuto incassare prima la smania di primato di Umberto Bossi e poi aveva dovuto mandare giù il boccone amaro della cessione della leadership del gruppo all’astro nascente Giorgia Meloni sul filo di nervi sempre tesi.

 

Come già in passato, a dettar legge nel partito era la cerchia ristretta, ora capeggiata dalla compagna, simbolicamente moglie, Marta Fascina, regista dell’ennesimo avvicendamento di incarichi ancora in corso di definizione. Il suo imprimatur a scelte prospettate e perseguite dall’inner circle, da tempo ormai, era la prassi per rendere operative le decisioni strategiche di una forza che un tempo faceva incetta di nuovi acquisti e si trovava adesso nelle basse fortune della diaspora inarrestabile.

 

Che la sua creatura fosse costantemente a un passo dalla dissoluzione, con lo spazio politico di volta in volta insidiato da nuove creature centriste, era insieme la sua paura e il suo cruccio.

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Spavaldo al limite dell’improntitudine riusciva a utilizzare senza inibizioni tanto la leva della ragionevolezza quanto quella della minaccia pur di ritardare l’appuntamento con rese dei conti date sempre per definitive e puntualmente rinviate. Almeno quanto l’individuazione di un delfino, autenticamente corrispondente all’identikit che aveva disegnato sul proprio ritratto.

 

Al suo cospetto, tolti i fidati consiglieri, da Fedele Confalonieri a Marcello Dell’Utri fino a Gianni Letta, non riusciva a trovare mai uomini sufficientemente attrezzati a cui consegnare il testimone. Troppo grande gli era sembrata la sua impresa per incontrare un omologo più giovane in grado di emulare i propri talenti.

 

A partire da quello che in epoca di capitalismo rampante gli aveva riservato una piazza d’onore nell’empireo dei nuovi ricchi.

 

La forza dei soldi, del resto, è stata sempre dalla sua. E sulla capacità di trovarli e moltiplicarli ha fatto affidamento anche in politica. Gli era in soccorso l’esperienza degli esordi. Il debutto da palazzinaro, l’incetta di aree, la discutibile origine delle proprie fortune, a partire dal finanziamento delle proprie avventure, i 20 miliardi di lire che boss del calibro di Giuseppe Graviano con obliqui messaggi rivendicavano come loro, la paura dei sequestri e l’accoglienza riservata allo stalliere palermitano Vittorio Mangano, emissario delle cosche siciliane. La P2 e poi l’appoggio del Psi di Craxi, il benevolo via libera all’espansione di quella che agli inizi era solo una tv via cavo per gli inquilini del nuovo sogno edilizio meneghino. Il biscione e la guerra di Segrate per il controllo della Mondadori. L’acquisto del Milan nel 1986.

Quindi l’avvento di Mani pulite, la spasmodica ricerca di un leader al quale affidare il traghettamento sulla fine del millennio del proprio impero, fino alla decisione di fondare un partito e provare a sbancare il Parlamento con il mito dell’uomo nuovo. In mezzo, molte inchieste e processi, condanne, leggi ad personam, il rumoroso divorzio dalla moglie, lo spacchettamento del tesoro di famiglia e la promozione in Parlamento di sodali, compari, amici e amiche. L’amicizia con Putin, quello strizzare l’occhio agli uomini forti a qualunque latitudine. Fino al tramonto della sua stella politica con la cessione della leadership del centrodestra a Matteo Salvini e l’appoggio sofferto al governo Draghi. Quindi il vassallaggio obbligato a Giorgia Meloni.
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Gli scandali, l’amicizia, nel complice silenzio, con Marcello Dell’Utri, le olgettine e le cene eleganti, sono il contorno di una concezione del potere che passa per quella che Giuseppe D’Avanzo gli imputò come dismisura, ovvero la cifra dell’eccesso di comando. Le barzellette sconce e le figuracce internazionali, le pietose bugie restano in fondo a una storia che iniziò con un revolver sulla scrivania del suo ufficio nel 1977, immortalato in uno dei primi scatti della sua vita pubblica dal fotografo Alberto Roveri. Invano per anni, tra quintali di faldoni, quando i riflettori si erano accesi da un pezzo e cerone e filtri già ne ritoccavano il volto, cercarono in tanti la prova regina, la pistola fumante che lo portasse ai margini della vita pubblica consegnandolo all’irrilevanza del vinto.

Grazie a mille sotterfugi e a diecimila astuzie quella pistola si è solo intravista. Consegnandolo forse al mito dell’archetipo italiano dell’impunito.