Il governo stanzia più soldi per le iniziative militari a guida Atlantica, meno per i processi di pace con la Cooperazione (tolti 40 milioni allo “sminamento umanitario”). Spedita una nave a protezione dei polacchi che hanno girato a Kiev una batteria di contraerea. Il flop Tunisia

Vista da lontano neanche si percepisce la differenza in politica estera fra il governo di Mario Draghi, esaltato, e il governo di Giorgia Meloni, esultante. Si potrebbe osservare che Fratelli d’Italia, a essere specifici e non irriverenti, non dispone di una politica estera propria o coerente col passato di estrema destra con venature nazionaliste, ma ne ha introiettata una dal governo di Mario Draghi, forse in prestito, comunque per convenienza e molta lungimiranza. Dunque assoluta fedeltà agli Stati Uniti che siano democratici o repubblicani non importa, perciò sentita partecipazione all’ex moribonda Alleanza Atlantica, pedissequa osservanza delle indizioni americane su Ucraina, meno Cina, più Africa, non troppa Asia, Europa con distinzioni.

Questa rigida condotta la si evince nelle decine di schede tecniche che illustrano le decine di missioni internazionali militari con mezzi e di cooperazione con soldi. Fatti. Scelte. Impegni. Non opinioni. Pare la politica estera di Mario Draghi. Oppure è la politica estera di Joe Biden. Confondibili.

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La propensione a seguire modelli classici di Meloni è scolpita nella sua limpidezza da cinque voci di spesa che riguardano cinque programmi di sorveglianza e protezione dei confini orientali sotto le insegne Nato, allestiti e finanziati copiosamente già da Draghi con l’invasione russa in Ucraina: circa 260 milioni di euro, 2.500 militari, 216 carri, 20 aerei, 6 navi. La corrispondenza fra i governi di Draghi e di Meloni si riflette con la missione «Very high Readiness Joint Task force», una brigata terrestre Nato per impieghi rapidi, formata per rispondere alle minacce di Mosca: l’Italia ne fa parte con un decreto emanato a settembre (Draghi) e convertito a dicembre (Meloni), un fabbisogno di 86 milioni e 1.350 militari.

 

Il governo in carica ha deliberato con poco clamore le missioni internazionali il 1° maggio, Festa dei Lavoratori, un giorno che ha captato il dibattito mediatico per le misure fiscali tacendo (casuale?) sul resto. Al capitolo stanziamenti, anche qui, non ci sono cesure col passato. Il bilancio statale garantisce 1,720 miliardi di euro (lieve flessione per oneri complessivi) per le missioni internazionali in senso ampio, di cui 358 milioni per la cooperazione gestita dal ministero degli Esteri (l’apposita delega, da annotare e rammentare, il ministro Antonio Tajani l’ha consegnata al viceministro Edmondo Cirielli, dirigente nazionale di Fratelli d’Italia). La quota in capo al ministero della Difesa, però, è maggiore di 140 milioni – si sale da 1,17 miliardi a 1,31 – poiché l’apporto militare è spiccato in tempo di guerra.

L’impronta del governo Meloni va interpretata con le quattro nuove missioni avviate a maggio. Tre riguardano l’Africa con la Libia, il Niger e il «bilaterale di supporto» in Burkina Faso, una l’Ucraina. Le risorse sono modeste, in totale 11,77 milioni di euro, ma la più rilevante è quella per Kiev con 9,19 milioni di euro e 80 militari. Questi fondi servono all’addestramento europeo di 30.000 soldati ucraini entro l’anno. Come dichiarato da Josep Borrell, il socialista spagnolo che è Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, ne mancano 14.000 per raggiungere gli obiettivi. Il contribuito italiano si esplicita attraverso corsi sul territorio nazionale. Non è precisato se la formazione è legata al tipo di materiale che ciascun Paese ha recapitato a Kiev per difendersi e contrattaccare. E le ragioni per l’Italia sono chiare: le forniture militari inviate agli ucraini sono coperte dal segreto di Stato.

Le stime per l’Italia oscillano fra i 400 e 500 milioni di euro in un anno per pezzi di scarso pregio finché il governo Meloni non ha “donato” il sistema missilistico Samp/t, costoso e prezioso. Le nebbie sul sostegno italiano a Kiev si diradano con frammenti di verità o realtà. Un frammento è senz’altro contenuto nella relazione del Centro Studi di Camera e Senato sulle Missioni Internazionali. Il paragrafo «dispositivo di vigilanza navale» Nato è aumentato da 50 a 64 milioni perché l’Italia di Meloni deve sopperire a una carenza polacca che, a sua volta, ha girato agli ucraini una batteria di contraerea. Lo scambio ha generato questo meccanismo: «Per il 2023 è previsto lo schieramento di una unità navale che contribuirà – si legge nel documento parlamentare – a colmare il divario capacitivo creatosi in Polonia nel segmento di Difesa Aerea a seguito dell’offerta di cessione di una batteria contraerea polacca all’Ucraina. In particolare, l’obiettivo sarà incrementare le capacità complessive di sorveglianza dello spazio aereo polacco e di difendere specifiche infrastrutture critiche da possibili attacchi missilistici, contribuendo con un sistema di difesa aerea imbarcata su unità navale. Per tale finalità si prevede anche lo schieramento di personale italiano di staff e di collegamento, che opera presso centri di Comando dell’Alleanza atlantica ovvero delle Forze armate polacche, qualora l’assetto sia integrato in attività di natura bilaterale. L’operazione non ha un termine di scadenza predeterminato».

Un altro esempio di sforzi italiani non percepiti per l’Ucraina va rintracciato negli elenchi della cooperazione internazionale, fra le iniziative di «stabilizzazione, sviluppo, interventi umanitari» nei processi di pace. Il 27 febbraio 2022, con la guerra nella sua fase più confusa, in attesa di organizzare mediaticamente i decreti per autorizzare le armi a Kiev, l’allora ministro Luigi Di Maio diramò una nota solenne per annunciare un regalo di 110 milioni di euro agli ucraini per le emergenze, non disse che 40 furono attinti per equilibri di cassa dalla cooperazione per l’Europa e l’Asia. Poi li hanno rimessi in circolo perché erano avanzi della fine (obbligata) dei progetti per le forze armate in Afghanistan dopo il ritorno dei talebani, clamoroso fallimento Nato che ha preceduto di sette mesi la resurrezione in Ucraina. La tabella di raffronto sulle esigenze generali per la cooperazione ci ricorda che la guerra è una idrovora e, di conseguenza, la pace ha perso 50 milioni, da 408 a 358 di quest’anno. Un unico dato: -39,6 milioni per lo sminamento umanitario. L’immigrazione è un argomento identitario per la destra, che all’opposizione si risolve con «li aiutiamo a casa loro» e al governo si declina in «piano Mattei».

Le strategie in Africa sono mirate al contrasto del flusso di irregolari e di un presidio europeo di zone contese da Russia, Turchia, Cina. Le attenzioni italiane sono rivolte in particolare alla Tunisia perché centinaia di migliaia di giovani sono spinti ad attraversare, per evidenti motivi economici, il lembo di mare che li separa dall’Italia e cioè dall’Europa. Il governo Meloni ha confermato una missione bilaterale attivata nella primavera 2019 durante l’esecutivo gialloverde di Cinque Stelle e Lega, in quel periodo accomunati da un sentimento, ormai quasi in disuso, di avversione agli immigrati provenienti dall’Africa.

L’idea era quella di controllare le frontiere per il tramite di comandi regionali dislocati a Jendouba (nord), Kasserine (centro), una località a sud non definita e coordinati da un comando centrale a Tunisi in frequente contatto con l’Italia. Come ammesso dal governo Meloni, un po’ per la pandemia e un po’ la burocrazia, la missione è di fatto inesistente, ferma a 15 militari. I governi vanno visti da lontano. Da vicino, la propaganda acceca.