Il documento del gruppo di sinistra prevede tutto il desiderabile: pace, lavoro, giustizia sociale e ambientale. Ma niente, invece, su come raggiungere gli obiettivi

Ricordate “Picnic at Hanging Rock”? È un bellissimo, inquietante romanzo scritto da Joan Lindsay nel 1967, poi film di Peter Weir nel 1975, e più recentemente serie televisiva. La storia, che per un po’ è passata per vera, è quella di un gruppo di studentesse del collegio australiano di Appleyard, che il giorno di San Valentino del 1900 va in gita fino al gruppo roccioso della Hanging Rock. Tre di loro, Miranda, Irma e Marion, più la professoressa di matematica Greta McCraw, si allontanano e scompaiono. Irma riapparirà, ma priva di memoria. Delle altre non si saprà più nulla.

 

A rievocare questa vicenda è uno studioso, scrittore e filosofo che va nominato nel raccontare il programma elettorale di Unione Popolare: si tratta di Mark Fisher, autore fra l’altro del famoso “Realismo capitalista” ma anche di un testo meno noto ma importante come “The weird and the eerie” (grossomodo, lo strano, il fuori posto). Ecco, Fisher dice delle due ragazze scomparse che sono in grado di compiere il passaggio e di saltare nell’ignoto, mentre Irma, che torna indietro, non riesce a liberarsi dalla pesantezza del già noto e del quotidiano.

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La metafora sembra perfetta per le dichiarazioni di intenti di Unione Popolare: perché una volta letto attentamente il programma spunta sulle labbra l’antica interiezione romanesca: che je voi dì?

 

C’è tutto quel che si può sognare e di certo c’è il salto nell’ignoto. Cito: «è l’unico programma pacifista e contro le guerre, per la fratellanza universale, la giustizia sociale, economica ed ambientale, contro corruzioni e mafie». Ed è solo l’inizio.

 

Perché le 120 proposte elencano tutto il desiderabile: salario minimo legale di almeno 10 euro lordi e riduzione dell’orario di lavoro, ritorno al contratto a tempo indeterminato e abolizione del Jobs Acts, assunzione di 10.000 ispettori del lavoro, eliminazione dell’Iva su prodotti di prima necessità e ripristino della scala mobile. Altro che “eerie”, altro che sognante: alloggi pubblici, aumento del reddito di cittadinanza e delle pensioni, sostegno alle aree interne. Si legge e si sogna, cullati dalle parole di una scrittrice come Sandra Newman, autrice del bellissimo “I cieli”, che non molto tempo fa mise in guardia dall’abuso di distopie: «non c’è nulla di vergognoso, infantile e irrealistico nel volere un mondo migliore. Dobbiamo lasciarci alle spalle la superstizione che ogni tentativo di risolvere i nostri problemi finisca nella distopia di Orwell. La storia ci insegna che le buone intenzioni non sono un segno di fallimento: dobbiamo permetterci di ragionare in termini utopistici, e di agire pragmaticamente per farli diventare realtà».

 

E dunque ragioniamo. Spesa pubblica nella sanità che non scenda sotto la media europea, cure dentistiche a prezzi economici o gratuite, rafforzamento dei centri antiviolenza, estensione del congedo di paternità, consultori gratuiti e laici, applicazione della 194, approvazione dello ius soli e della cittadinanza ai figli degli immigrati, abrogazione della Bossi-Fini.

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Però a un certo punto ci si fanno un paio di domande: perché nei fatti il programma, ripreso in gran parte da quello del francese Mélenchon e da Sinistra Europea, prevede l’autonomia dell’Italia, sia dall’Unione europea («superamento delle politiche di bilancio stabilite dall’accordo di Maastricht e dal semestre europeo») che dalla Nato. E qui ci si chiede: si può fare sul serio? Bisogna essere utopistici, questo è vero: ma fino a che punto? E, soprattutto, con quali coperture?

 

Sorge il sospetto che nel programma sia finito tutto quello che ci si può mettere per immaginare un mondo diverso, ma senza vincolo di fattibilità: un po’ il contrario politico dell’OuLiPo e della sua letteratura potenziale, che invece poneva vincoli proprio per stimolare gli scrittori. O quasi tutto.

 

Perché per esempio nella parte che riguarda la scuola (dove finalmente si parla di eliminazione delle classi pollaio e di stabilizzazione del personale precario), magari si poteva accogliere la molto più strutturata proposta di legge di iniziativa popolare “Per la scuola della Costituzione” (Lip), firmata da oltre 100.000 cittadini, che ha soggiornato in parlamento tra il 2006 e il 2017 senza uscire dalla commissione Istruzione per essere discussa in aula. E allora ci si chiede: perché non affidarsi a un progetto saldo per farne un altro? Perché pensare di poter fare tutto da soli?

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Ancora. So perfettamente che la cultura sembra faccenda marginale. E non lo è: come ha ricordato a fine agosto Nicola Lagioia su La Stampa, non solo «offre un’identità a un popolo che con fatica ne trova una nello Stato, è uno dei (non inesauribili) motivi per cui ci rispettano all’estero», ma «rappresenta un formidabile strumento di emancipazione per chi vi ha accesso, non da ultimo genera ricchezza economica e lavoro». Vale per i libri, in particolare, laddove il mercato editoriale «genera in Italia oltre tre miliardi di fatturato».

 

Nell’elenco delle meraviglie la cultura è trattata in modo sbrigativo: si dice, certo, che gli investimenti devono raggiungere «almeno l’1% del Pil»: ma non è un grande obiettivo. Secondo l’ultima elaborazione Openpolis su dati Eurostat, il paese che spende di più, l’Ungheria (!) investe l’1,3. L’Italia è al quartultimo posto con lo 0,3% , davanti a Irlanda, Grecia e Cipro. Inoltre: benissimo il vincolo sul cambio di destinazione d’uso di tutti i luoghi della cultura (sale cinematografiche, teatrali, biblioteche, librerie, musei). Ma non è, se paragonato al resto, un po’ poco?

 

E, soprattutto, se la narrazione dev’essere nuova e potente e ribaltare quella preesistente, ancora una volta non vale la pena insistere sulla teorizzazione del progetto insieme alla sua attuabilità? Perché alla fine, chiuso il documento, resta quella perplessità che Jonathan Swift conferisce al suo Lemuel Gulliver quando arriva nell’isola degli Houyhnhnms (non provate a pronunciarlo, è impossibile): i cavalli pacifici e un po’ snob che non hanno termini linguistici per quel che deprecano. Ma a forza di scarnificare le parole, quanto riescono a essere efficaci le utopie?