Il senatore parla di “piccole modifiche chirurgiche al codice civile, tali da aprire la strada a un’autentica bigenitorialità”. In realtà il rapporto paritetico è una tortura per i figli e una vita impossibile per le madri. L’Udi: «Conosciamo l’animo patriarcale e misogino di questo paese»

Simone Pillon ci riprova, seppur diversamente. In quello che sembra più uno spot elettorale, il senatore della Lega ha depositato in Commissione Giustizia il testo unificato del celebre ddl 735, “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità”, che nel 2018 tante polemiche aveva sollevato. Considerato da molti avvocati, psicologi, persone che lavorano nei servizi sociali e tecnici di vario tipo, come un grande passo indietro nella concezione della famiglia stessa, più simile a un sistema di patria potestà.

 

A svelare il vero obiettivo di questo ritorno è Pillon stesso, che dal suo account Facebook scrive: “Oggi più che mai la figura paterna è sotto accusa o accantonata, ridicolizzata, dimenticata. Ecco perché è indispensabile garantire ai bambini tempi adeguati di relazione soprattutto col papà, che è quasi sempre costretto a tempi di minimali coi figli in caso di separazione”. Nessun cambiamento in favore della vita dei figli di coppie separate quindi, ma un favore a chi, secondo il senatore, in questa storia starebbe pagando un prezzo troppo alto, i padri.

 

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Nei fatti lo scopo si traduce con la richiesta di modifica dell’articolo 337 ter del codice civile che recita “Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori”, a “rapporto” la proposta chiede di aggiungere “paritetico”, riferito cioè ai tempi di frequentazione del bambino da parte dei genitori, «garantendo, ove non contrario all'interesse del minore, tempi paritetici di frequentazione con entrambi i genitori, compresi i pernottamenti», aggiunge in un altro comma. Identico a quanto era stato scritto nel testo originale.

 

Il rapporto “paritetico”, anche con la forza
Il testo unificato consegnato il 4 maggio è stringato, otto articoli contro ventiquattro del ddl originale. Modifica il codice civile minuziosamente, portando modifiche tutt’altro che innocue, che anzi ricalcano a pieno le istanze di allora, criticate a suo tempo da avvocati, addetti e, soprattutto, da associazioni femministe e contro la violenza sulle donne. Chiedere il rapporto paritetico è la maggiore di queste, perché non tiene conto della volontà e del benessere dei minori, ma li riduce a pacchi da dividersi tra i genitori, da un lato, e danneggia le madri perché vengono accusate di essere la causa dietro alla volontà dei figli di voler rimanere con loro. Tutto in nome della cosiddetta bigenitorialità: “Con questo parlamento è politicamente impossibile una grande riforma organica, ho deciso di proporre piccole modifiche chirurgiche al codice civile, tali da aprire la strada ad una autentica bigenitorialità”, scrive Pillon.

 

Il senatore quando parla di bigenitorialità si riferisce a quanto detto sopra: in caso di separazione o divorzio i figli devono mantenere un rapporto con entrambi i genitori. Un principio già sancito con la legge 54 del 2006 e che sulla carta suonava come il raggiungimento di nuovi diritti per i bambini, ma che nei fatti si è tradotto spesso in un’arma contro le madri. Centinaia, se non migliaia di madri (i numeri sono difficili da ottenere perché i tribunali non li registrano) si sono viste togliere i figli, perché questi ultimi non volevano sottostare all’obbligo di avere a che fare con l’altro genitore, anche qualora questo fosse violento o accusato di abusi.

 

Per stabile quindi un rapporto alla pari (anche se magari prima del divorzio non c’era) i giudici costringo il minore contro la sua volontà e, nei casi di stallo, si preferisce inserirlo a forza in una casa famiglia, uno spazio neutro in cui recuperare il rapporto non voluto, attraverso quello che in gergo si chiama “reset”. Una prassi che penalizza e rende la vita impossibile soprattutto delle madri: la maggioranza dei minori infatti preferisce restare a vivere con loro, ma in sede civile, sono credute la causa di questo rifiuto da parte dei figli: viene tolta loro la responsabilità genitoriale e inizia il calvario. Madri sono accusate di manipolare il volere dei figli attraverso l’alienazione parentale.


«I tempi paritetici sono una tortura per i figli. Un preconcetto ideologico generato da un punto di vista adultocentrico: ci sono genitori che abitano a decine, se non centinaia di chilometri di distanza. Come si può pensare di avere tempi uguali?», spiega Andrea Coffari, avvocato che si occupa della tutela di bambini, donne e vittime di violenza. «Ho decine di casi così, l’ultimo un bambino di due anni diviso tra Roma e Livorno, costretto a una settimana con uno e una con l’altro: l’hanno rovinato».

 

In situazioni tanto diverse l’una dall’altra dovrebbe essere la valutazione del giudice, di volta in volta, a trovare la soluzione giusta per il minore, non basandosi un volere scritto nero su bianco che spezza la vita dei figli in un 50 e 50 netto e arbitratrio, spiega l’avvocato: «Così non si tiene conto dell'età e della continuità affettiva, non si tiene conto che il più delle volte sono le madri ad avere un legame con i figli, soprattutto durante i primi anni di vita. È una forma di violenza contro i bambini e una forma grossolana di legiferare su temi delicati e può dar luogo a disposizioni traumatizzanti per i minori stessi». Una problematica evidenziata anche dalla relazione finale della Commissione Femminicidi che denuncia la mancanza di tutele nei confronti dei minori e suggerisce di compiere una valutazione sulla salute di questi bimbi.

“Questo articolo teorizza la possibilità applicativa della divisione a metà di un figlio, ma questo significa considerare i minori alla stregua di beni materiali”, aveva scritto in una relazione depositata in Commissione ai tempi del primo ddl Pillon, il Cismai, Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l'Abuso all'Infanzia, che sottolineava come così si ignorino le reali esigenze dei minori di avere una vita equilibrata e con abitudini continuative, per perseguire un criterio astratto e prefigurato, con “rischi per lo sviluppo fisico, emotivo e relazionale del bambino”.

 

«Molti uomini sono più propensi a sentire il potere sui figli, la donna è centrata sulla relazione con loro. Pochi uomini invece sono riusciti a fare un salto di evoluzione civile oltre a una cultura maschilista», commenta Coffari. L’avvocato per le sue battaglie si è spesso dovuto scontrare con le associazioni di padri separati che invece lamentano isolamento e abbandono.

 

Interpellata da l’Espresso, L’Udi afferma di confermare le idee già espresse in passato: «In questo paese purtroppo il potere dei padri è inenarrabile, le madri sono emarginate dai diritti fondamentali e di conseguenza i diritti dei figli», dice Vittora Tola che contesta la stessa esistenza della legge 54, la quale ha aperto all’utilizzo in Italia di teorie antiscientifiche come appunto la sindrome di alienazione parentale (ex pas), più volte scomunicata dalla Cassazione e dalla comunità scientifica. L’ultima è la sentenza sul caso Laura Massaro, che ha stabilito, una volta in più, che l’alienazione parentale deve restare fuori dai tribunali e che nei prelievi coatti di minori “l’uso della forza in fase di esecuzione fuori dallo Stato di diritto”. Massaro che si trova da anni all’interno del sistema giuridico per l’affido del figlio e una delle centinaia di madri che da qualche anno si è unita per combattere quello che chiamano “violenza istituzionale”. L’alienazione parentale, una delle armi per togliere i figli alle madri, è la teoria secondo cui un genitore aliena l’altro attraverso i figli: nella fattispecie, la madre nei confronti del padre, considerando che la quasi totalità dei minori esprime la volontà di voler stare con la madre in fase di separazione.

 

«Non è vero che le donne italiane non vogliono la parità, così come sancito teoricamente dalla bigenitorialità, ma conosciamo l’animo patriarcale e misogino di questo paese», aggiunge Tola. In effetti parlare di parità in un sistema per nulla paritetico stride con la realtà: le associazioni ricordano che ancora oggi in Italia moltissime donne non lavorano, non hanno potere economico, rinunciano a una professione per crescere i figli e dedicarsi al lavoro domestico e di cura che non prevede retribuzione. Rinunciano alla carriera o sono costrette a farlo, scegliendo finti part time, perché il mondo del lavoro le penalizza come donne e madri. Su questo, va notato un altro passaggio della proposta di Pillon che chiede che ciascuno dei genitori provveda direttamente e per capitoli di spesa, andando appunto a danneggiare, la parte con risorse economiche minori.

 

I casi di violenza ignorati
Come detto sopra, nel testo manca del tutto un riferimento ai casi di violenza. Nei principi generali del testo non si fa nessuna distinzione: “La Repubblica [...] promuove tutte le azioni necessarie a tutelare il rapporto dei minori con il padre e la madre”, si legge genericamente, usando “madre” e “padre”, quando sarebbe meglio “genitori”.

 

«Bisognerebbe specificare “per tutti i casi ove possibile”, fare riferimento al Codice Rosso, e rimandare alla Convenzione di Istanbul con proposta emendativa, perché qui si rischia come per la legge 54», spiega Veronica Giannone, deputata di Forza Italia, da tempo su questi temi, “questo testo in questo modo è già predisposto al danno”.

 

Attualmente i casi di violenza restano fuori dai processi per affido: penale e civile non parlano tra loro e può succedere che, anche con una condanna o processo in corso per violenza domestica, in sede civile non si considerino per nulla questi eventi. Quando invece, come dice la Convenzione di Istanbul, il minore dovrebbe essere subito allontanato dal genitore violento e non costretto a un rapporto forzato, così come oggi avviene. Anche per questo moltissime donne non denunciano, per paura che vengano loro strappati i figli. «La vecchia proposta portava alle donne a non denunciare più, questa porterebbe le donne a ripensare il divorzio», commenta Giannone.

 

«Chiedere parità non vuol dire che siamo tutti uguali. Esistono differenze, anche naturali: esistono sono rapporti differenti, non è questione di importanza - conclude Giannone - Tra le altre cose, i primi anni di vita la madre è una necessità anche fisica, come il riconoscimento dell’odore e della voce, si vive insieme per nove mesi, non si può ignorare. Paritetico non è pari, al massimo, alla pari».