È un disordine ansioso e concitato lontano dalle geometrie degli studiosi: perché è dionisiaca, non apollinea. Ma ai candidati indica un percorso stretto fatto di umiltà, ascolto e disponibilità

Mentre scrivo, molte cose sono ancora nella nebbia. Una votazione, due, tre, quattro. Un destino o un altro o un altro ancora. Un presidente o cento altri, il florilegio di nomi che ci hanno tenuto compagnia in un viaggio verso il Quirinale cominciato troppo presto e durato troppo a lungo. Mentre invece voi, che leggete, sapete come è andata a finire (almeno si spera). E cioè sapete se a questo punto Mario Draghi è presidente della Repubblica o presidente del Consiglio. Due onori grandissimi che tra i quali si stende il confine tra una vittoria e una sconfitta, o almeno una difficoltà.

 

Il paradosso di Draghi sta nel fatto che quei pochi metri che separano Palazzo Chigi dal Quirinale si sono rivelati i più faticosi, i più complicati, i più controversi che si potessero immaginare. Lungo quei pochi metri si è imbattuto in una gran quantità di ostacoli, trappole e insidie. Tutte cose che magari a lui saranno sembrate fastidiose e irriverenti. Ma che sono invece la quintessenza di quell’arte nobile, complicata e faticosa che si chiama “politica”.

 

Si dirà che Draghi politico non è. Egli non s’è mai presentato ad un’elezione, né s’è mai ripromesso di farlo un giorno o l’altro. Non si sa bene per quale partito avrà votato, né tra quelli di una volta, né tra quelli di oggi. E dovendosi occupare di garantire la fiducia al governo e il consenso parlamentare ai suoi provvedimenti si immagina che abbia fatto del suo meglio per non far trapelare i suoi più intimi “pensieri politici” - sempre che ne voglia avere.

 

Ma poi, come che siano andate le cose, dovrebbe essersi reso conto che quella cosa lì, la politica appunto, è consenso, magari stropicciato. E che ogni gradino che se ne sale o se ne scende è una somma di fatica, disponibilità, pazienza, competizione, vanità. Un impasto di potere e di relazioni, di tenacia e di fortuna, di disegni e di circostanze. Un miscuglio di vizi e virtù che non si separano quasi mai con un taglio netto. È l’infinito conflitto tra due ragioni che, come diceva Hegel, genera gli orrori del mondo. Gli orrori, ma anche le possibilità che il mondo progredisca.

 

Tante cose che alla fine si combinano secondo logiche imperscrutabili per il profano eppure (quasi) inesorabili per il professionista. Una volta che sulla mappa si profili un itinerario politico chi decide di inoltrarvisi deve seguirlo sapendo che quel territorio è avaro di certezze. Ma dove poi proprio quella precarietà diventa risorsa, sensibilità, curiosità, formazione. Affina i sensi, abitua a decifrare segnali quasi impercettibili. Quei segnali che il giorno prima sono un’incognita avvolta nel buio e il giorno dopo diventano illuminazione di una chiarezza perfino ovvia.

 

Chi ha fatto una campagna elettorale sa che essa viene pensata e tarata sull’elettore più lontano, su quello meno affine, su quello il cui voto è più incerto. L’apparato propagandistico dei partiti e dei candidati sembra sempre rivolto ai tifosi. Ma si tratta di una finzione. Semmai sono da convincere gli incerti, i dubbiosi, i diffidenti. Certo, le consonanze vanno fatte valere. Ma nessuna campagna è mai uno specchio in cui il candidato, o il leader, o il dirigente vede riflessa la propria confortante immagine. I riflettori illuminano semmai una zona più oscura cercando di diradarne la nebbia e di intuirne i percorsi possibili.

 

Tutto questo avviene in un disordine ansioso e concitato, che mal si concilia con le geometrie degli studiosi. La politica è dionisiaca, non apollinea. Conosce il calore, la tensione, a volte la furia. Non contempla quasi mai l’eccesso di geometrica razionalità. La lucidità sta nel suo esito, non nel suo quotidiano svolgimento. Il grande leader riesce a traslare tutto questo bailamme sul terreno della civiltà democratica. Ma non mai fino al punto di mettere tutto perfettamente in ordine.

 

Tutto questo groviglio ha quasi sempre un suo perché. E ai candidati indica un percorso stretto fatto di umiltà, ascolto, disponibilità. Li costringe a relativizzare le loro certezze. Li tiene sulla corda. Li fa faticare fino all’estremo laddove magari invece loro preferirebbero camminare sul velluto. E li spinge piuttosto a inoltrarsi lungo strade polverose e un po’ sconnesse. Percorrendo le quali ci si comincia a render conto di quale strano e complicato contesto sia quello dell’umanità associata in politica. Un luogo pieno di anfratti nascosti, meandri tortuosi e traguardi che da lontano riesce difficile intravedere. Una selva oscura nella quale ci si può facilmente perdere, ma a volte anche ritrovare.

 

Certo, se mai la politica e Draghi dovessero perdersi dopo essersi sfiorati sarebbe assai triste per tutti e due.