«Il cambiamento è un’opportunità per una nuova cultura riformista. Se non si afferma questa cultura della ricomposizione, la frattura si allarga e vincono i populismi». Parla l’assessore in Emilia Romagna Vincenzo Colla, che sfidò Maurizio Landini per la Cgil

Sessant’anni, quarantadue dei quali passati nella Cgil, piacentino, vicesegretario generale della Cgil fino allo scorso febbraio, antagonista di Maurizio Landini nella corsa alla segreteria della Cgil. Oggi Vincenzo Colla è nella giunta di Stefano Bonaccini come assessore a Sviluppo economico, Green economy, Lavoro e formazione, deleghe pesanti che, in una regione ricca e sviluppata come l’Emilia-Romagna, pesano quanto un ministero. Per queste ragioni è la persona giusta per parlare dello sciopero di fine anno indetto da Cgil e Uil (senza la Cisl) contro le politiche del governo Draghi.

 

«Non chiedetemi di dare un consiglio al mio amico Maurizio cui voglio bene pur avendo approcci diversi, non voglio fare la scena patetica dell’ex che giudica dall’esterno», dice e non solo per gentilezza: «Quando sei segretario generale, nell’ultimo miglio sei solo a decidere e su questo nessuno può dare consigli. Un consiglio che posso dare a tutti però è che bisogna recuperare l’unità, perché senza un progetto confederale di unità sindacale non si conta nei luoghi dove si decide. Alla festa della Cgil, Romano Prodi ha detto: non potete discutere nella parrocchia quando si discute nel mondo. Ricostruire in fretta il progetto unitario fa bene non solo al sindacato, ma anche al Paese».

 

 

Al congresso della Cgil, nel gennaio del 2019, si contrapposero due visioni diverse del sindacato. Schematizzando: una più “movimentista” che guardava a una coalizione sociale, quella di Landini; e una più “laburista” che pensava a un sindacato soggetto riformista, quella di Colla. «Il sindacato che ho in mente non insegue la paura ma governa l’innovazione. Non è quello che faceva la Cgil di Di Vittorio quando nei campi arrivarono i trattori a sostituire il lavoro dei braccianti? Noi avremmo bisogno di pensieri pazienti, oltre che di investimenti pazienti. E la questione della dignità del lavoro è centrale, perché, senza un lavoro dignitoso non c’è rappresentanza e allora il lavoratore pensa: datemi un’urna che la trito e voto per chi è più contro», diceva allora a L’Espresso.

 

 

Non vuole dare consigli, Vincenzo Colla, ma non rinuncia a dire la sua: «Siamo di fronte a uno scenario inedito e la rottura del dialogo sociale è un grande problema in questa fase».

 

Perché?
«Perché c’è ancora della gente che muore a causa del Covid-19 e perché abbiamo la più grande disponibilità di investimenti nella storia recente per dare risposta ai problemi di produttività e di sistema che aveva questo Paese prima del Covid-19. Per esempio, sulla questione dell’energia: se non governiamo i costi e la produzione un grande Paese manifatturiero come l’Italia che non ha materie prime non può reggere. L’altro elemento del quadro è che l’Europa è passata dal fiscal compact ad un nuovo keynesismo: ci sono miliardi di investimenti al di là del Pnrr e l’Italia deve competere per attirarli: abbiamo manodopera molto qualificata e un costo del lavoro più basso rispetto ad altri Paesi europei. Con le nuove tecnologie, con l’e-commerce, con il digitale la logistica diventa un assett strategico per produrre e noi su questo abbiamo uno storico problema infrastrutturale».

 

Dobbiamo governare questa tecnologia, farla diventare coscienza di popolo.
«C’è una nuova morfologia sociale: per lavorare sono disposto a tutto. Da un lato il camion, il lavoro, la famiglia, dall’altro l’immigrato che se perde quel lavoro precario perde anche il permesso di soggiorno. E poi sub-appalti con imprese inventate come se fosse un menù alla carta. C’è in atto una fortissima polarizzazione tecnologica: ci sono magazzini interamente robotizzati, dove serve manodopera in grado di programmare e gestire le macchine, ma servono anche i lavoratori più deboli e precari. Per il sindacato la sfida è unirli e difenderli insieme».

 

 

Continuiamo a respirare però un’aria un po’ novecentesca, tipo operai contro padroni?
«Diciamo pure che si respira un’aria un po’ tradizionale mentre siamo dentro uno scenario che offre anche straordinarie opportunità. Il rischio è di svegliarci tardi. Non dimentichiamo il passato: siamo sempre un Paese un po’ borderline. Questo è un governo di unità nazionale e Draghi è riuscito a dare a livello internazionale una impressione di stabilità che l’Italia non aveva mai avuto e se in ambito europeo non siamo ritenuti stabili e credibili nessun governo ce la può fare. Se non sfruttiamo questo momento saremo commissariati. Nel diventare keynesiana l’Europa è diventata anche più progressista. Le cinque aree di intervento individuate appartengono a una cultura progressista aperta, che cerca una nuova mediazione tra il capitale 4.0 e il lavoro».

 

Un sindacato che resta troppo ancorato alle sue origini nella fabbrica fordista, nel pubblico impiego, nelle campagne rischia di non rappresentare il mondo del lavoro di oggi?
«Quel che serve è un grande sindacato confederale in grado di elaborare autonomamente e di consegnare al Paese le sue idee sul cambiamento. Non serve una dimensione verticale quando queste nuove tecnologie sono trasversali e velocissime. È l’epoca della ricucitura: devo conoscere l’impatto delle nuove tecnologie e gestire la mediazione. Serve formazione progressiva e serve dignità del lavoro. Se parla di questo il sindacato entra da protagonista nel nuovo scenario, se parla solo di pensioni resta ancorato al modello tradizionale».

 

Poi c’è la destra che attinge al tradizionale bagaglio antisindacale contro gli scioperi.
«La piazza va bene quando la prendono loro, non va bene quando la prendono gli altri. È bene che si diano una calmata: al di là del giudizio non è che uno sciopero sia un flagello di Dio. La destra che va da Orban non è all’altezza del cambiamento di cui stiamo parlando, non è in grado di ricostruire la grande Europa di cui abbiamo bisogno come non mai, dal punto di vista istituzionale, politico, sociale».

 

E la sinistra?
«Forse abbiamo dato per spacciate troppo presto le tradizioni politiche progressiste: oggi in Germania si afferma Scholtz in una coalizione con i nuovi ambientalisti, in Francia con la Hidalgo rinasce il Psf, in Spagna e Portogallo governano i socialisti, in Italia è molto importante il ruolo del Pd. Il cambiamento è un’opportunità per una nuova cultura progressista e riformista che allarghi i suoi confini ricomponendo la frattura tra la tecnologia e le ricadute sociali dell’innovazione. Se non si afferma questa cultura della ricomposizione, la frattura si allarga e si affermano i populismi».

 

L’Emilia Romagna sembra essere diventata un laboratorio politico. Qui il M5S è stato prima sconfitto e poi annesso una coalizione che va da Renzi all’ala ragionevole del M5S. A livello nazionale per Enrico Letta sembra più complicato, perché?
«Non possiamo essere un modello perché non c’è ancora un esito definitivo: c’è un magma che si muove. In un certo senso però la nostra esperienza può servire perché nasce da una discussione strategica sui grandi temi del cambiamento climatico, dell’innovazione, della giustizia sociale che ci ha portato a definire una visione: siamo d’accordo sul fatto che se non viene governata l’innovazione produce nuove diseguaglianze e dunque lavoriamo alla ricucitura. Vogliamo investire su un grande new deal della conoscenza e dei saperi. Forse questo può essere utile a tutto il Paese perché noi siamo una regione integrata nel mondo, che attrae investimenti».

 

 

Nella sinistra l’Emilia-Romagna è sempre stata considerata pragmatismo senza visione e serbatoio di voti. È ancora così?
«Oggi c’è una novità che potrebbe essere utile anche a livello nazionale: una capacità di discussione politica che non pratica l’agguato bensì la partecipazione democratica. Infatti sentiamo una grande affinità con il lavoro di Letta. Mi pare un buon momento per la cultura progressista di questa regione».

 

Nella politica nazionale però si parla solo di mettere insieme le sigle.
«La debolezza dei partiti non sta nelle teste in alto ma nella mancanza di gruppi dirigenti in basso in grado di mediare tra le istituzioni e il popolo in un momento di grande cambiamento. La globalizzazione è fatta da movimenti nei territori e se non sei dove essi si realizzano puoi anche avere una grande testa nazionale ma in basso nessuno ti capisce. Serve ricostruire una filiera dei partiti, non si affronta un cambiamento di questa portata senza un sentimento organizzato dal basso».

 

 

Possiamo dire che il sindacato appare più vitale dei partiti, più investito dai processi di cambiamento?
«Lo è perché per fortuna esiste una Costituzione che consente le assemblee sui luoghi di lavoro e dunque una partecipazione organizzata dei lavoratori. Forse dovremmo riflettere su questa storia dei partiti leggeri. La disintermediazione è la culla del populismo e dell’antipolitica e questo non porta certo acqua al mulino della sinistra»