La partecipazione a un governo di unità nazionale poteva essere l’occasione per fondare un partito di destra istituzionale. Ma il Carroccio mostra di preferire le sirene del nazionalpopulismo

La grande occasione perduta. No, nessun riferimento al film «balzachiano» di Xavier Giannoli sulle Illusioni perdute. La grande occasione è quella, che la Lega sta sprecando, della partecipazione all’esecutivo di unità nazionale per convertirsi in un partito pienamente di sistema. Perché in tanti, troppi, dei suoi dirigenti scatta sempre l’irresistibile riflesso pavloviano antisistemico. E dire che, da una parte, c’è la destrissima Lega populsovranista, con ambizioni di partito pigliatutto nazionale, intrisa di euroscetticismo e dedita al flirt con l’antivaccinismo.

 

Ma, dall’altra, pure il partito ministeriale e quello locale degli amministratori, che affonda le sue radici nella Lega macroregionale nordista, molto attenta agli umori dei ceti produttivi settentrionali, tutto fuorché antieuropeisti e antieuro. Le «due Leghe» esistono nei fatti, e fra di esse la conflittualità non si rivela evidentemente cruenta come quella che animò nella seconda metà del Quattrocento la guerra delle «due Rose», ma c’è, ed è reale (a differenza dei troll e dei bot che una di esse utilizza a ogni piè sospinto nella sua propaganda social).

 

La frattura tra le «due Leghe» – giocata anche in chiave comunicativa e, naturalmente, qualche volta cavalcata come un utile gioco delle parti – si era palesata nelle scorse settimane proprio intorno al ruolo della formazione politica nel governo di larghe intese presieduto da Mario Draghi. Specialmente quando il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti e l’ala governista hanno platealmente manifestato segnali di insofferenza nei confronti delle corse in avanti e degli atteggiamenti a corrente alternata del segretario nazionale Matteo Salvini. Con in ballo, chiaramente, la concezione strategica e il posizionamento futuro del partito.

 

Se, dunque, anche Giorgetti, com’è avvenuto di recente, si defila da un Consiglio dei ministri in cui si decidono le misure di rafforzamento del Green pass per contrastare la nuova ondata pandemica, e la delegazione leghista alza la posta e il livello del conflitto con i partner della «strana maggioranza» – e, soprattutto, con il premier – significa che la situazione è diventata pesante. E anche dal minor presenzialismo mediatico salviniano si ricava fortemente l’impressione che la Lega si prepari a un possibile sganciamento dal governo e a non sostenere un eventuale trasferimento di Draghi al Quirinale (sensazione rilanciata dalle dichiarazioni sulla volontà di portarci, invece, un «nome di centrodestra»). E che, quindi, rinunci a ogni – seppure sofferta e problematica – opzione di normalizzazione e neo-istituzionalizzazione sulla strada di un partito conservatore di destra, rifugiandosi nella comfort zone nazionalpopulista, quella dove la «sovranità energetica» rivendicata da Salvini rischia troppo spesso di fare rima con «sovranismo» tout court.

 

Un peccato per la Lega, e un peccato per il Paese, che di una destra normale (per non dire liberale, ma questa sembra ormai una chimera...) avrebbe disperatamente bisogno. Una grande occasione mancata, per l’appunto. Ma, a quanto pare, c’è ben poco da fare: mentre in Francia la destra estrema ha – ambiguamente – inseguito (o, almeno, fatto finta di perseguire) la «de-diavolizzazione», in Italia si continua a preferire un certo populismo sulfureo (compresa la copertura politica dell’incessante radicalizzazione no-vax).