È il ministro più discusso del governo Draghi. Da lui passano i 68,6 miliardi di euro dei fondi europei. Ecco come intende spenderli. «Per l’italia non c’è l’opzione nucleare. Per noi l’eolico e il fotovoltaico servono a evitare bollette stratosferiche»

«Io la transizione ecologica la posso solo spiegare, poi deve essere chiaro che si tratta di un cambio di paradigma in cui ci dobbiamo impegnare tutti». Tecnico prestato alla politica, Roberto Cingolani è da mesi al centro della ribalta mediatica. Perché da lui dipende quella transizione ecologica che dà il nome al suo nuovo ministero e a cui il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) dedica la non indifferente somma di 68,6 miliardi di euro.


Partiamo da una domanda che ci facciamo tutti. A che punto siamo con la transizione ecologica?
«La transizione ecologica è un processo globale in cui l’Europa può avere un ruolo di leadership. Siamo quelli più avanti di tutti; partiamo da un livello superiore a quello degli altri continenti, sia da un punto di vista della circolarità che da quello energetico. L’obiettivo indicato dalla Commissione europea, riduzione al 2030 delle emissioni del 55 per cento rispetto al 1990, testimonia la volontà europea di attivare un processo di de-carbonizzazione serio e rapido. Poi, certo, i modelli sono diversi da Paese a Paese: la Germania sta potenziando il gas perché ha un sistema manifatturiero che non può andare solo a rinnovabili, ma fa carbon capture per compensare. La Francia produce energia nucleare, con costi elevati dal punto di vista della manutenzione ma con vantaggi in termini di produzione. I Paesi dell’est sono molto legati al carbone e avranno maggiori difficoltà. Noi in Italia stiamo messi meglio: abbiamo una buona tradizione sulla circolarità. Dal punto di vista della produzione energetica, abbiamo fatto un piano che è sicuramente il più ambizioso di tutti: prevediamo di aumentare la capacità di rinnovabile di 70 gigawatt nei prossimi 9 anni».


Un programma ambizioso che si scontra con una realtà poco incoraggiante. L’Italia è ferma allo 0,8 per cento di incremento annuale…
«Abbiamo una burocrazia pesantissima. Se per avere un permesso devi aspettare mille giorni, non investi. Perciò il governo ha lavorato sul decreto semplificazioni, per snellire l’iter autorizzativo e potenziare la commissione che fa la valutazione d’impatto ambientale. Vedremo se queste nuove regole più agili funzionano, ma l’obiettivo prioritario è aumentare la nostra capacità di costruire impianti».


Al momento però non si sa bene dove mettere questi impianti. Non sarà il caso di fare una mappatura?
«Siamo qui da solo sette mesi. Come prima cosa, abbiamo dovuto aggiornare il nostro piano sulle rinnovabili; il precedente aveva dei target di de-carbonizzazione al 40 per cento. Ora le Regioni devono identificare gli spazi; la mappa esisterà. L’altra cosa che non c’è, ma a breve la renderemo pubblica, è una road map delle aste con tempi e obiettivi chiari. Occorre dire che le ultime aste sono andate deserte. Abbiamo aperto aste per 2 gigawatt e ottenuto proposte per 0,45, l’ultima addirittura 0,20. I player non mancano; manca la sicurezza temporale dell’investimento. Basta fare il confronto con quello che accade altrove: la Spagna apre per 3 gigawatt e ha nove volte l’offerta. Noi apriamo a 2 gigawatt e ci arriva un decimo. Questo aspetto contiamo di risolverlo con la semplificazione».


Lei è finito su tutti i giornali recentemente per le sue affermazioni sul nucleare, che sembrano indicare una scarsa propensione allo sviluppo delle fonti di energia rinnovabile…
«Ho semplicemente detto che la Francia sta studiando la quarta generazione di reattori, quelli non radioattivi, e ha chiesto all’Europa di considerarli verdi. Ma voglio chiarire: il nucleare da noi al momento non è un’opzione. Noi puntiamo sulle rinnovabili, soprattutto fotovoltaico ed eolico. Anche perché da questo punto di vista in Italia abbiamo una fortuna: nel XXI secolo siamo come le nazioni ricche che prima avevano il petrolio. Con il più alto irraggiamento per metro quadro in zona ricca, siamo gli Emirati Arabi del futuro. L’attuale aumento del prezzo del gas ci sta indicando che questa è l’unica strada: se non vogliamo avere bollette energetiche stratosferiche, dobbiamo sfruttare questa potenzialità, superando le resistenze e anche con soluzioni innovative».

 


A cosa si riferisce?
«Penso al fotovoltaico nelle dighe foranee, ai pannelli solari e alle pale eoliche in mare aperto. Se hai 400 km di mare piatto, metti un’isola di pannelli lunga 1 km e larga 100 metri, con un impatto che non è così rilevante. Certo, questi impianti costano di più, ma si deve trovare un equilibrio fra tutela del paesaggio ed efficienza energetica. Altro aspetto su cui puntiamo: il potenziamento delle comunità energetiche, soprattutto nei borghi e nei piccoli centri, dove le condizioni sono più favorevoli. Lo stesso discorso vale per l’agro-fotovoltaico».

Su questo punto esiste un dibattito acceso. Se si mettono a terra pannelli solari, si riduce la superficie coltivabile…
«Il nostro modello di agro-voltaico, di cui ho già parlato con le principali organizzazioni di settore, è verticale e non prevede la messa a terra dei pannelli. I pannelli sono rialzati e permettono di coltivare al di sotto. Senza toccare un centimetro di terreno, il sistema rende l’azienda agricola autonoma dal punto di vista energetico: metti l’agro-voltaico verticale sui campi coltivati, copri con i pannelli i tetti dei capannoni degli allevamenti. Poi c’è in programma di riciclare le deiezioni animali e le biomasse leggere per fare il biogas in house. Su questo c’è un ingente investimento nel Pnrr».


Il problema è che comunque il suolo agricolo risulta più redditizio producendo energia che coltivando. Come si fa a evitare le speculazioni?
«Questo è un patto sociale. Ci dobbiamo fidare l’uno dell’altro. Io credo che gli investitori facciano questi impianti perché anche loro hanno dei figli che oggi hanno dieci anni e nel 2050 ne avranno quaranta. Se comincio a dubitare di qualunque manovra, qui non si muoverà nulla. Rispetto ai terreni abbiamo aree da bonificare e utilizzare. Io ho fatto tutto quello che è in mio potere, stilando il più grosso piano di rinnovabili di tutto il continente. Ora vediamo chi ci crede sul serio. Se escono fuori tutti quelli che dicono: sì bellissimo, però facciamolo da un’altra parte, occorrerà una riflessione».
 

Che tipo di riflessione?
«È opportuno che questa discussione non diventi ideologica: i 70 gigawatt non sono negoziabili. Ci servono per arrivare al 2030 con 70 per cento di energia elettrica da fonti rinnovabili. Se non lo facciamo, buchiamo gli obiettivi dell’accordo di Parigi: continueremo ad alimentare tutto quello che avremo elettrificato, dalle automobili alle fornaci, con energia prodotta da combustibili fossili. Quindi dobbiamo aumentare le rinnovabili e assicurarne la continuità. Per questo abbiamo previsto nel Pnrr un investimento di 4.5 miliardi di euro per la smart grid, una rete che permette di gestire un energy mix dove diventa preponderante il ruolo delle fonti di energia che non sono continue, come eolico e fotovoltaico. Se non lo avessimo fatto, l’incremento di rinnovabili sarebbe stato velleitario».
 

Perché se è così urgente passare alle rinnovabili, le centrali a carbone che devono chiudere nel 2025 saranno convertite a gas, un altro combustibile fossile?
«È una questione di numeri e di tempistiche. Sul carbone siamo tutti d’accordo che vada chiuso. Ma in alcuni posti la transizione non può prescindere dal gas per una questione di potenza da garantire. Passando da carbone a gas noi tagliamo il 30 per cento di CO2; da gas a elettricità verde tagliamo il 100 per cento. È ovvio che l’ideale sarebbe fare il doppio salto e passare da carbone a elettricità verde. Siccome però dobbiamo installare 70 gigawatt in 9 anni queste considerazioni sono solo quantitative e cambiano da luogo a luogo. Il problema è globale ma la soluzione è locale. In ogni posto, devi vedere come fare la transizione».


A proposito di contesti locali, c’è una forte resistenza in Sardegna al piano di metanizzazione. Il timore è che convertendo a gas le centrali a carbone si rallenterà un processo di rinnovabile vera. Perché non fare il doppio salto in Sardegna, dove le condizioni ambientali sono favorevoli?
«La proposta che è stata fatta dall’ad di Enel Francesco Starace è quella di fare una massiccia operazione con circa 2 gigawatt di rinnovabile in Sardegna e rendere la regione autonoma da quel punto di vista. Ne sto discutendo con tutte le parti: la Regione, i distretti industriali, Terna, Enel. Bisogna capire se, in base al consumo attuale, si riesce a fornire ai sardi sufficiente energia per mandare avanti le macchine, le città, le industrie e garantire la crescita prevista in tempo reale. Altrimenti bisognerà andare per gradi».


I dati del 2021 parlano già di un aumento tendenziale di richiesta di energia e di emissioni post-Covid-19. Sembrano due processi contraddittori: da una parte si de-carbonizza, dall’altra il mondo diventa sempre più affamato di energia…
«L’Italia in questo momento ha consumi elettrici di 300 terawatt/ora all’anno. Durante il Covid siamo scesi a 290, prima eravamo a 320. Se noi pensiamo a un futuro radioso, con una crescita del 5 per cento, arriveremo a 360 terawatt/ora. Quando ho calcolato i 70 gigawatt di rinnovabili, l’ho fatto sull’ultimo anno di riferimento Covid-19 escluso. Se però cresciamo del 5 per cento all’anno, cosa che mi auguro, fra cinque anni i miei conti si saranno dimostrati insufficienti. Avremo settori industriali che pompano di più. La gente comprerà più automobili: se saranno tutte elettriche, le dovremo caricare e lo dovremo fare con energia rinnovabile. In fisica questo si chiama calcolo auto-consistente. Io faccio un calcolo, poi siccome mi variano le condizioni lo devo aggiornare. Nel momento in cui faccio questo conto, si deve capire che se sto crescendo occorre un’altra pala eolica. Oppure mi toccherà bruciare più gas, ma se brucio più gas esco dall’accordo di Parigi. Se a un certo punto mi dicono “No alle pale eoliche qui, no al fotovoltaico qui”, se si sviluppa la sindrome nimby (Not in my backyard, ndr), allora dobbiamo smettere di crescere. Oppure dobbiamo comprare energia al confine, magari prodotta da una centrale nucleare, pagandola di più».


Non sarà il caso di ridurre il consumo di energia?
«Abbiamo un solo pianeta. Però abbiamo nel mondo un miliardo di persone che non ha elettricità e tre miliardi che non hanno accesso a combustibili puliti per cucinare. Io programmo tutta la mia transizione sui paesi del G20, faccio grandi proclami in cui dico che sto salvando il pianeta. Però di fatto sto condannando a morte quei 3 miliardi lì, a cui do due possibilità: rimanete nel Medioevo perché appena crescete emettete CO2 oppure emigrate e io vi metto i muri, vi faccio affondare nel Mediterraneo perché se venite da me producete CO2 e così non può andare».


Qual è la soluzione?
«Occorre un cambio di modello sociale, che richiede tempi più lunghi. Abbiamo troppi telefonini, troppo streaming, solo questo fa il 4 per cento di emissioni di CO2. Siamo disposti a rinunciarci? Abbiamo tutti due automobili. Siamo pronti a rinunciare a una? Bisognerà impostare un dibattito che per la sua natura complessa non può avere risultati immediati. Per tornare al nostro contesto italiano, una cosa che abbiamo fatto subito è confermare il superbonus per l’efficientamento energetico. Solo le perdite energetiche degli edifici residenziali producono il 22 per cento della CO2 in Italia».


Perché avete scelto di finanziare a pioggia il superbonus sugli edifici privati, quasi 14 miliardi, e destinare appena 1,21 miliardi per gli edifici pubblici, come scuole, tribunali, carceri? Non sarebbe stato più logico rinnovare tutti gli edifici pubblici e dare uno stimolo ai privati con un incentivo più basso?
«Si tratta di un provvedimento promosso dal precedente governo che abbiamo deciso di confermare. Io penso che il 110 per cento sia troppo. È l’unico caso in cui fai i lavori e quasi ci guadagni. Poi, sono d’accordo, va investito di più sugli edifici pubblici. Ma bisogna anche considerare che la termodinamica delle dispersioni è soprattutto serale, quando aumenta l’illuminazione e il riscaldamento».
 

Finora abbiamo parlato di riduzione delle emissioni, cioè di mitigazione del cambiamento climatico. L’Italia ha un problema forse più urgente. I nostri territori sono sfiancati dagli effetti del riscaldamento globale: grandinate, tempeste, ondate di calore. Non bisogna anche mettere in campo un serio piano di adattamento?
«I dati delle Nazioni Unite mostrano che negli ultimi dieci anni gli eventi climatici estremi riconducibili all’incremento della temperatura sono costati 1.200 miliardi di dollari e hanno fatto 400mila morti. Contro questa catastrofe, gli strumenti convenzionali non sono più sufficienti. Bisognerà usare modelli matematici avanzati, sensoristica, intelligenza artificiale. La cosa che ho fortemente voluto è un piano di monitoraggio globale che utilizzi immagini infrarosse, multi-spettrali e al satellite, combinate alle immagini date da droni e da sensori a terra. La “sensory features” lega tutto insieme, lo mette in un cloud con macchine di ultima generazione e permette di fare previsione in tempo reale di quello che succede. A questo va sommato un investimento di 20 miliardi che noi facciamo nel Pnrr sul dissesto idrogeologico, le perdite di risorse idriche, la salvaguardia delle coste».

Non pensa che nell’opinione pubblica il tema del cambiamento climatico sia straordinariamente sottovalutato rispetto alla gravità della situazione?
«Sicuramente. I bambini che oggi hanno 6 anni nel 2050 ne avranno 36 e non possiamo immaginare un futuro in cui l’agricoltura non produce più perché le terre sono disidratate e l’Italia è un deserto. O che le vacanze andranno fatte nel mar Baltico perché la temperatura media al Sud sarà 52 gradi. Guardate la stampa internazionale. Oggi la California brucia più carbone perché non riesce a tenere in piedi i condizionatori. La Germania ha ripreso a pompare gas per alimentare la propria manifattura. Gli Stati Uniti hanno aumentato la produzione di petrolio e compensano con la carbon capture. Noi in Italia faremo sforzi enormi per arrivare al 70 per cento di rinnovabili senza compromessi. Per una nazione come la nostra, che ha il 160 per cento di debito pubblico e l’11 per cento di deficit, questo rappresenta un impegno notevole».

Un altro tema su cui sembriamo essere tutti d’accordo a parole, ma siamo molto indietro sono i rifiuti.
«Sui rifiuti l’Europa ha dato delle indicazioni molto chiare. Dobbiamo aumentare la differenziata e arrivare all’80 per cento di raccolta del rifiuto. L’obiettivo finale è riciclare il 65 per cento dei rifiuti e ridurre le discariche al 10 per cento. Abbiamo messo nel piano più di 2 miliardi per realizzare 50 nuovi impianti per l’economia circolare».

La questione è dove fare gli impianti. Prendiamo Roma come esempio. Il Tmb Salario, l’impianto andato a fuoco nel 2018: mesi prima l’Arpa aveva certificato che da quell’impianto usciva un rifiuto più sporco di quello che entrava. Qual è la possibilità di far cambiare idea ai cittadini che non si fidano e di fare rigenerazione urbana?
«La sindrome nimby a mio parere ha una sola ragione di esistere: la ripetuta disonestà che i cittadini hanno visto negli ultimi decenni, tanto da sviluppare una sfiducia a priori nei confronti delle istituzioni. Bene la cittadella, ma bisogna creare una cultura della rigenerazione urbana spiegandone la portata e i vantaggi per i cittadini. E al contempo bisogna decidere con cura dove si possono fare gli impianti e farli bene».