Il segretario dimissionario del Pd avrebbe intenzione di candidarsi per il Campidoglio. E per ricostruirsi l’immagine di politico "dalla parte delle persone" ha deciso di farsi intervistare, di nuovo, da Barbara D’Urso

“Ormai ha deciso, farà il sindaco di Roma”. Questa è la previsione fornita all’Espresso da fonti consultate dopo l’intervista di Nicola Zingaretti a Barbara D’Urso. Si tratta di fonti che lo conoscono molto bene e che conoscono le dinamiche interne del Pd. Del resto, dal salotto pop di Canale 5, scelto in contrapposizione ai salotti radical-chic, il messaggio che arriva non è certo quello di un ritiro dalla scena politica.

 

Al contrario, irrompe sulla scena politica un Zingaretti diverso: disteso, sorridente, ironico e a tratti anche sferzante contro i capicorrente: «Tutti volevano il Conte-2, poi quando mi sono girato non c’era più nessuno», dice e così spiega con il tradimento dei dirigenti il fallimento della linea “O Conte o Elezioni” che ha portato il Pd in un vicolo cieco e all’insignificanza politica.

 

È un Zingaretti 2.0, a suo agio fuori dai palazzi e “dalla parte delle persone” (un tempo si diceva “in mezzo alla ’ggente”), che mostra l’attitudine a un populismo dal volto umano del tutto simile a quello professato da Giuseppe Conte, non a caso l’unico (oltre a Goffredo Bettini) avvertito preventivamente della scelta delle dimissioni. Non si spiegherebbe altrimenti l’inusitata asprezza del linguaggio usato dal solitamente cauto Nicola: «Mi vergogno del mio partito».

 

La “vergogna”, non per sé o per i propri errori, ma per la malvagità degli avversari. Sappiamo da tempo che le emozioni e i sentimenti hanno un’enorme influenza sui comportamenti delle persone e che dunque la politica ne è fortemente influenzata. Così, al tempo dei social, ogni politico sceglie una narrazione che possa affascinare gli elettori. Le parole, i gesti, i luoghi sono gli strumenti attraverso cui essa si costruisce. Ecco Zingaretti che svergogna gli oligarchi del partito, che rivendica con orgoglio di essere stato l’unico leader politico ad aver twittato in difesa della trasmissione dell’Amica del Popolo e che, quindi, tornando in quel contesto semantico, sceglie per sé l’immagine del Re buono che si ribella alla corte e ai suoi intrighi e torna a immergersi nel suo popolo per ritrovare la forza delle origini.

 

E pronto a fare quello che sa fare meglio: una campagna elettorale casa per casa, in un territorio che governa, per lo più bene, in ruoli diversi da quasi vent’anni, con un sistema di sottogoverno molto esteso e dove vince da sempre.

 

Tante cose stanno andando in quella direzione: l’avvio della discussione con consenso bipartisan di una nuova legge su Roma Capitale che renderebbe ancor di più la carica di Sindaco di Roma una delle più importanti d’Italia, oltre che una grande vetrina internazionale. Da “Barbara”, “Nicola” dice che “per ora” fa il presidente della Regione, ma quando parla del sindaco di Roma prevede che «nei prossimi anni sarà un lavoro bellissimo» e gli brillano gli occhi. Quanto alle condizioni politiche, l’ingresso in giunta dell’esponente grillina Roberta Lombardi, una delle fondatrici del movimento e sua sfidante alle ultime elezioni, renderebbe le sue dimissioni anticipate dalla carica del tutto indolori (a Roma si dovrebbe votare nel 2021, in regione due anni dopo): un ticket Zingaretti a Roma e Roberta Lombardi in regione sarebbe probabilmente imbattibile.

 

Dal punto di vista del Pd e della politica nazionale, non è affatto una resa: Zingaretti e Bettini scelgono il terreno più favorevole e la ribalta più prestigiosa per sperimentare qualcosa che travalichi un Pd ormai considerato una bad company. È molto significativa la scelta di rilanciare Piazza Grande, l’area movimentista che ha accompagnato l’ascesa alla guida del Pd di Nicola Zingaretti, ma poi mai utilizzata davvero per scardinare gli assetti del potere dem e finita in un “Vicolo Stretto”, come ha scritto amaramente ieri sul Manifesto Massimiliano Smeriglio, che ne è stato il coordinatore.

 

Ora potrebbe essere una specie di infrastruttura esterna che sorregga un nuovo soggetto politico che aggreghi coloro pronti a consegnare a Giuseppe Conte capo di M5S convertito al populismo buono la leadership di un’alleanza che tenga fuori centristi e riformisti liberal. È più o meno il partito disegnato da Roberto Speranza, in un’intervista al Corriere della Sera.

 

Che si tratti della fusione in un solo partito o dell’alleanza tra due soggetti diversi dipende da come si scioglierà il nodo della segreteria nel Pd. Se il Pd finisse di nuovo nelle mani degli odiati ex-renziani o di coloro che non se ne voglio liberare, le strade si separerebbero. È del tutto evidente che nelle prossime settimane così decisive non può restare acefalo un partito che comunque è uno dei principali partiti del governo. Non sarà tuttavia facile fare il segretario di un partito del quale il tuo predecessore si vergogna. Soprattutto inutile, se il Pd non si domanda chi davvero vuole essere prima ancora che con chi si vuole alleare. Nicola Zingaretti l’ha detto e va nella sua “direzione ostinata e contraria”. Gli altri, i riformisti, i cattolici democratici, i sindaci che lo criticano, no. Sul ponte del Titanic si balla ancora.