Il passaggio a un’economia più sostenibile è il primo punto del nuovo governo, e il 37 per cento dei fondi del Recovery Plan servono a questo. Ma il nostro Paese al ritmo attuale mancherà gli obiettivi europei

La strada l’ha indicata chiaramente il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Nominando un inviato speciale per il clima, nell’autorevolissima persona dell’ex segretario di stato John Kerry, ha fatto seguire alle parole della campagna elettorale i fatti. Nel “climate plan” da 1.700 miliardi di dollari che dovrà essere supervisionato proprio da Kerry, si prevede tra le altre cose il raggiungimento della totale neutralità climatica per il 2050 e il superamento dell’utilizzo di combustibili fossili nel settore elettrico già nel 2035. Che detto dagli Stati Uniti, primo produttore al mondo di petrolio, non è poco. 


Anche l’Unione europea nel suo Green New Deal ha indicato l’orizzonte del 2050 per raggiungere la neutralità climatica, prevedendo per il 2030 una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento rispetto ai livelli del 1990. La transizione ecologica e il contrasto alla crisi climatica sono tra le priorità dei governi in diversi paesi europei. In Germania, la cancelliera Angela Merkel - soprannominata “klimakanzlerin” per la sua attenzione al tema - ha lanciato un programma di de-carbonizzazione estremamente ambizioso. In Francia e in Spagna è stato istituito un ministero per la transizione ecologica. In Italia siamo ancora parecchio indietro: la questione ha difficoltà a trovare spazio nel dibattito pubblico. Compare nelle agende delle principali forze politiche in modo episodico, sempre in posizione ancillare rispetto a quelli che sono considerati temi più stringenti.

 


Per questo la proposta del fondatore del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo di istituire anche da noi un super-ministero simile a quelli francese e spagnolo, che governi le politiche ambientali ed energetiche, ha avuto il merito di mettere la questione al centro delle discussioni alla vigilia della nascita del nuovo governo presieduto da Mario Draghi.


Quanto il tema della transizione ecologica dominerà l’azione del prossimo esecutivo? Quanto si sceglierà di utilizzare i fondi del Next Generation-Eu per disegnare effettivamente un nuovo modello di sviluppo, basato su de-carbonizzazione, economia circolare, mobilità sostenibile e cura dell’ambiente?

 

I fondi europei - 209 miliardi di euro, di cui il 37 per cento vincolati a “progetti green” - rappresentano da questo punto di vista un’opportunità unica per recuperare il terreno perduto. Se nell’ultima bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) da presentare a Bruxelles una parte cospicua di risorse (67,5 miliardi di euro) è destinata alla transizione verde, come prevedono i vincoli europei, nel documento sembra mancare una visione sistemica, che dia un reale indirizzo alle politiche da realizzare. Manca, come fa notare il Forum disuguaglianze e diversità che fa a capo all’ex ministro Fabrizio Barca, un’indicazione di obiettivi da raggiungere e una misurazione degli impatti. «Nella sua bozza attuale, il Piano non usa il linguaggio dei risultati attesi, l’unico che interessa non solo l’Unione europea ma anche le persone comuni, impegnate a ricostruire le proprie vite nei tempi difficili che ci troviamo a vivere», sottolinea Barca.

 


I tempi che viviamo - con la duplice crisi pandemica e climatica in pieno svolgimento, quella sociale ed economica alle porte - imporrebbero scelte radicali. La transizione ecologica dovrebbe tradursi in un ripensamento delle modalità di produzione dell’energia, della mobilità, del sistema agricolo e industriale, del modo in cui sono organizzate le nostre città. Richiederebbe un approccio olistico, visionario e ambizioso, che sappia guardare al mondo del futuro. «Purtroppo per ora la politica non ha colto la profondità della sfida che abbiamo di fronte. Il Next Generation-Eu è stato interpretato come una grande legge di bilancio pagata dall’Europa e non per quello che in realtà è: un piano volto a promuovere un cambiamento strutturale delle società secondo linee guida ben precise», rincara Edo Ronchi, ex ministro dell’ambiente e presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile.


«Il pilastro principale di queste linee guida è proprio la transizione ecologica, a cui nella bozza del piano italiano sono destinate risorse tutto sommato limitate e in buona parte per progetti pre-esistenti», continua Ronchi. A ben guardare, esclusi i progetti già in essere, alla cosiddetta rivoluzione verde sono dedicati 6 miliardi l’anno. «Una cifra», sottolinea ancora l’ex ministro, «del tutto insufficiente per raggiungere l’ambizioso target di riduzione delle emissioni indicato dalla Commissione europea».


Uno degli ambiti cruciali per la futura de-carbonizzazione è quello energetico, ancora fortemente dipendente dai combustibili fossili. All’attuale ritmo di crescita delle fonti rinnovabili difficilmente raggiungeremo i nuovi obiettivi fissati dall’Ue. «L’anno scorso i Paesi Bassi hanno installato impianti fotovoltaici per una potenza di 2.9 Gigawatt, circa quattro volte di più di quanto si è fatto in Italia. Il fatto che un paese infinitamente più piccolo e meno soleggiato del nostro ci sorpassi in modo così vistoso è un segno inequivocabile del nostro ritardo», analizza Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola. «C’è un problema di farraginosità nel sistema nei permessi. Se per avere l’autorizzazione per un piccolo parco eolico devi attendere cinque anni, hai già sforato gli orizzonti temporali fissati dal Next Generation-Eu».

 


Oltretutto, la tanto decantata rivoluzione energetica viene sistematicamente contraddetta dal mantenimento di politiche anacronistiche, come i sussidi ai combustibili fossili - che, secondo quanto calcolato in un recente rapporto di Legambiente, ammontano complessivamente a 35,7 miliardi di euro tra sussidi diretti e indiretti. Una cifra astronomica, che pregiudica investimenti in altri settori e difende rendite di posizione di aziende inquinanti.


Anche sulla mobilità sostenibile c’è molta strada da fare. Dopo il piccolo Lussemburgo, l’Italia è seconda in Europa per densità di auto private. Secondo uno studio Eurostat, nel nostro paese circolano quasi 40 milioni di autoveicoli, per la precisione 646 ogni 1000 abitanti (compresi i bambini). Per ridurre questo numero esorbitante, si dovrebbe puntare su mobilità dolce, sharing e trasporto pubblico. Invece, nell’ultima legge di bilancio si è scelto di sussidiare nuovamente con fondi statali (circa 700 milioni di euro per l’anno in corso) l’acquisto di nuove autovetture.

 

Se da una parte favorisce lo svecchiamento del parco auto con veicoli meno inquinanti, la misura esacerba quello che rimane il principale problema della nostre città: la congestione. «Per la mobilità urbana sostenibile sono stati previsti 760 milioni di euro l’anno, che dovrebbero servire per un numero elevato di misure (le piste ciclabili, il rinnovo della flotta autobus, le tranvie, i treni e i trasporti navali regionali) con quasi nulla sul tema cruciale della sharing mobility», analizza ancora Ronchi.


La scarsa sensibilità ecologica della classe politica si rispecchia insomma in una serie di misure contraddittorie e, per quanto riguarda il Pnrr, in un elenco di progetti poco articolati che in larga parte non sembrano frutto di una visione d’insieme ma quasi una forzatura imposta dall’Europa. «Per un vero cambiamento, bisognerebbe far passare il messaggio che l’ambiente non è una materia di nicchia, ma una questione strategica per la buona società e pure per l’economia», sostiene Paolo Pileri, professore di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano.


Una convinzione che in realtà innerva già da tempo una parte non marginale del mondo produttivo. Se la politica ci sente poco da questo orecchio, sono molte le imprese in sintonia con l’aria del tempo. Nel settore agricolo, l’Italia ha raggiunto ragguardevoli traguardi nella diminuzione nell’uso di pesticidi e nell’abbattimento delle emissioni. Nel settore industriale, tanti sono gli esempi di aziende grandi e piccole che hanno fatto della sostenibilità una bandiera. «Negli ultimi 5 anni, 432mila imprese hanno investito in prodotti e tecnologie green. L’Italia è una super-potenza dell’economia circolare: è il paese europeo con la più alta percentuale di riciclo di rifiuti. È una propensione che fa parte del nostro Dna di paese tradizionalmente manifatturiero ma privo di materie prime», sottolinea ancora Realacci. «Questi record andrebbero messi a sistema, valorizzati e incentivati».


Saprà la politica cogliere l’occasione? Riuscirà il governo Draghi a guidare il paese attraverso l’attuale contesto di crisi e promuovere una transizione ecologica seria, in linea con gli obiettivi europei e con le tendenze globali? L’Italia ha fino al 30 aprile per presentare a Bruxelles il nuovo Pnrr. A novembre si terrà a Glasgow la Cop26, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, di cui il nostro paese è co-organizzatore. Il tempo stringe e il momento delle scelte radicali sembra non più rinviabile.