La modernità reclama un capo che imponga il suo temperamento e la sua leadership. Ma quel che serve è più modestamente un direttore d’orchestra tra le varie parti in campo

Desertificato da più di un quarto di secolo a questa parte, abbandonato dai suoi antichi cultori, dediti ormai alla religione bipolare, isolato dalle correnti di pensiero più attuali e più à la page, il centro rinascerà, se mai rinascerà, solo come un luogo affollato e assai diversificato.

 

Il buon risultato di Calenda alle elezioni romane sembra aver riacceso i riflettori sul destino di quella parte di Paese che trova Salvini e Meloni troppo di destra e il Pd e i grillini troppo di sinistra. Un’area che non ha mai più superato la soglia del 10 per cento, ultimo in ordine di tempo Mario Monti con la sua Scelta civica, e che però richiama glorie più antiche e numeri più generosi. La lunga epopea democristiana, per dire tutto con una parola.

 

E tuttavia proprio chi ha creduto nel valore di quella antica via di mezzo ha il dovere di render conto di una discreta quantità di tentativi andati a vuoto. E anche, ora, di chiamare per nome la difficoltà che si registra nel mettere insieme un certo numeri di individualità politiche di spicco. Da Calenda per l’appunto, a Renzi, a Emma Bonino, a molti altri.

 

Il fatto è che il centro, se non vuole limitarsi ad essere la sottile intercapedine che separa Enrico Letta e Luca Zaia, deve configurarsi come un luogo accogliente per molti e tale da non lasciarsi riassumere nel carattere del suo leader di turno. Un luogo cioè nel quale la passione politica si accompagna alla prudenza, il protagonismo delle prime file si coniuga con la militanza delle file assai più indietro e il carattere forte, ma non troppo, del leader di turno si stempera nella pluralità delle opinioni e delle ambizioni di quanti gli tengono compagnia.

 

E forse sta proprio qui la difficoltà maggiore. Perché il codice della nostra modernità politica reclama un capo e si aspetta da lui incisività, temperamento, leadership. Fin quasi alle soglie del culto della sua personalità. Ma il valore di una forza intermedia sta invece semmai nella pazienza con cui la si intesse, nell’ospitalità che riserva a chi vi affluisce, nel riguardo che porta a chi canta nel coro in un modo tutto suo.

 

In altre parole, il centro dei nostri giorni cammina in bilico tra quanti si aspettano uno squillo di tromba altrettanto possente di quelli intonati a destra e a sinistra e quanti invece sono solo in cerca di un direttore d’orchestra che faccia esprimere l’infinito pluralismo tipico di una base elettorale sufficientemente ampia e varia. Magari senza incorrere negli eccessi confusionari delle prove d’orchestra di felliniana memoria.

 

Impresa impossibile? Forse. Diciamo che il gioco delle previsioni non arride alla creazione di una forza di interposizione. E che la legge elettorale continua piuttosto ad alludere a logiche bipolari. Resta il fatto però che i due schieramenti principali che tengono il campo non sembrano mobilitare più di tanto il loro stesso elettorato, come la valanga di astensioni nei ballottaggi ci ha appena confermato.

 

Così oggi finiamo per non vedere in campo né una destra, né una sinistra che siano tali tutte e due a pieno titolo. Mentre l’elettorato continua a fluttuare tra le più diverse tentazioni in cerca di una via di fuga. Premiando Calenda, moderno e tecnologico, in quel di Roma. E premiando Totò Cuffaro, democristiano desueto, nei paesini siciliani. Tanto per dire di due figure assai dispari e sproporzionate, se vogliamo. Che però sembrano riassumere ai loro due estremi le possibilità che sono date oggi a chi non vuol militare né di qua né di là.

 

Si tratterà allora, un giorno o l’altro, di mediare tra chi vive il centro come il nuovo sole dell’avvenire e chi invece cerca da quelle parti il cuore antico. Due modi di dire, s’intende. Due metafore che convivono negli stessi paraggi. Chissà che il centro che verrà non debba essere proprio la faticosa mediazione tra questi due caratteri.