Crespelle, rigatoni, un delirio di carboidrati on line a tutte le ore. Così il leghista si trasforma da leader viscerale a boss dei visceri. Per parlare alla pancia del Paese

Il 4 dicembre scorso è stata una gran giornata per Matteo Salvini e per chi lo segue, con varia gamma di affetti, in quella piccola apocalisse quotidiana che è la sua comunicazione social. Di buon mattino ha svelato anzitempo un’operazione antimafia in corso e disposta dal magistrato Armando Spataro, il quale ha avuto l’ardire di lamentarsene e quindi di meritarsi un invito al pensionamento da parte del vicepremier. Per la memorabilità, però, uno scontro istituzionale dai contorni tanto inverecondi non bastava.

L’ennesimo D-Day salviniano prevedeva il lancio di una bomba, più calorica che comunicativa: con tanto di immagine in tempo reale del piatto fumante, si annunciava pubblicamente che il ministro affrontava bucatini conditi con un ragù industriale e accompagnati da un bicchiere di rosso di una specifica cantina. Si incantava lo sguardo nel groviglio di pasta bisunta, tra la carne macinata della sugaglia. I bucatini con il ragù del supermercato, nel piatto di chi occupa la carica che fu di Parri, De Gasperi, Scalfaro. Immaginiamo Carlo Azeglio Ciampi condividere foto di tacos El Paso. Cossiga che sbuccia su Instagram formaggini Milione. I bucatini leghisti erano la premessa maggiore, che avrebbe condotto alla logica conclusione di una fetta di pane con la Nutella, addentata a Santo Stefano in faccia a tutti gli italiani, mentre si aveva notizia dell’assassinio del fratello di un ‘ndranghetista pentito a Pesaro, peraltro sotto protezione dello Stato e quindi sotto la responsabilità dello stesso Salvini. Per la Nutella hanno protestato in molti e Salvini ha risposto coerentemente con le proprie retoriche, con cui contagia l’infosfera e la pubblica opinione da mesi – ha moltiplicato, se non i pani e i pesci, le occasioni grandguignolesche in cui testimonia lappate, suzioni, trangugiamenti di cibi inqualificabilmente insalubri.

Da leader viscerale a boss dei visceri. La sua timeline di Twitter (a scorrerla fa l’effetto una terapia Ludovico degna di “Arancia meccanica”, agrume che del resto si ingollerebbe all’istante) è un fiorire di grassi polinsaturi, un delirio di carboidrati, un helter skelter di trigliceridi, un simposio solitario e sconcio, la controedizione di un MasterChef alternativo e crasso. Crespelle al formaggio che trasudano olio, crêpe alla nutella, cotolette, carote, cachi, castagne, gelato cookies & cream, bicchieri di Cabernet, tiramisù di mezzanotte, rigatoni in sugo di salsiccia, pizze con salame e cipolla. Il nutrizionista inorridisce, almeno quanto il 70% dell’elettorato che non ha la benché minima intenzione di seguire o votare questo imam dell’alimentazione da hard discount. Un pasto infinito, consumato a ogni ora del giorno, sprecando nomi di brand che si suppone non contribuiscano a finanziare campagne politiche o alimentari. Tutto ciò nella convinzione che, per parlare alla pancia del Paese, la pancia sia anzitutto da riempire come capita, in un perenne gozzovigliare che mette in linea (l’espressione è equivoca) con i gusti e le ambizioni della maggior parte degli italiani.

Così del resto recita il comandamento di Luca Morisi, il tenutario della Bestia, (che detta in questo modo sembrerebbe indicare il custode di uno zoo di periferia, mentre si tratta del boss della comunicazione digitale di Salvini, un ibrido tra Rovazzi e Casalino). È il teorico dell’«epica empatica del Capitano», come l’ha definita egli stesso: allinearsi a ciò a cui ambisce il popolo e, al contempo, a ciò che il popolo normalmente fa. Per il guru social del vicepremier, dunque, questo sono gli italiani: il contrario del veganesimo o delle intolleranze alimentari, una massa indistinta di Alvaro Vitali che mangiano le code alla vaccinara della Sora Lella e tracannano a ritmi di Superciuk. Il che è anche coerente con chi ha iniziato a fare politica a “Il pranzo è servito”, nell’edizione condotta da Mengacci, dove rivendicava con orgoglio la “professione nullafacente”, così come oggi si inorgoglisce sui lardi fusi.

È soprattutto una fuga in avanti, che si teme irreversibile, rispetto alla tradizione del potere a tavola, una delle categorie fondamentali per leggere il parlamentarismo nostrano, come insegna quel formidabile breviario della Repubblica che è “Invano” (ed. Feltrinelli), compilato dal Lévi-Strauss dell’antropologia politica italiana, Filippo Ceccarelli: democristiani in osteria, Montanelli che iconizza Fanfani mentre rumina una banana, Craxi in frenetica manducazione presso le cucine dell’hotel Raphael, Bossi e Buttiglione e D’Alema che stringono un patto di legislatura davanti a una mesta scatoletta di sardine, ancora D’Alema a chiudere un accordo a casa di Gianni Letta in margine a una fantomatica crostata, fino alle “cene eleganti”berlusconiane a base di bresaola e sottaceti nella testimonianza di Patrizia D’Addario.

Mangiare e, se possibile, fornicare - è qui che si parrà sua nobilitate: quella di qualunque notabile nella storia Repubblicana. Anche in questo, tanto quanto col pane quotidiano mostrato alle genti via social, Salvini rinnova e rovescia il cafonal in epoca digitale. Il corpaccione nudo con cravatta verde, la bonza gonfia e svestita nelle copertine di periodici che furono popolari, fino al sonno maschio e forse postorgasmico, catturato e spedito online da chi stava a letto con lui, ovvero la fidanzata dei tempi, Elisa Isoardi. Dalla satiriasi di Mussolini in poi, le cronache attribuiscono voglie vizi e virtù di letto a qualunque potente di turno in Italia.

Mino Pecorelli trasognava su “Op” di misfatte orgiastiche del giovane Andreotti, l’elettorato privo di scala mobile assisteva al turbinare di nomi di attrici attorno a Craxi e, se nessuno è mai giunto ad azzardare ipotesi sugli appetiti di Arnaldo Forlani, si è almanaccato per anni intorno a quelli del campione nazionale di questo ambiguo sport, cioè Berlusconi. Tutto supposto, tutto inteso per ammiccamento o sottovoce, accennato, secondo i canoni del moralismo italiano, che non è semplicemente un effetto collaterale del cattolicesimo. Questa immane tradizione termina e si innova grazie all’opera di spiattellamento pubblico del fatto privato, che sia mangiare o fottere, ma comunque consumare, nel corpo incongruo e nelle libido sfrenate di Matteo Salvini.

La dissoluzione della cautela istituzionale e della sobrietà di Stato, con cui il ministro dell’interno compie la demolizione giornaliera della carica che riveste e di tutto il galateo che la proteggeva, coincide con l’orgoglio di rappresentarsi in pubblico mangiando i ravioli al Castelmagno o stordendosi in un sonno pubblico e vagamente postcoitale. E’ un’esacerbazione di qualunque intimità, resa visibile e involgarita, secondo le linee evolutive dettate dall’occupazione dell’immaginario pubblico, con cui Berlusconi praticò l’ipnosi su scala nazionale.

Le sciagurate allusioni sessuali, pesanti e pesantemente maschiliste, con cui il Cavaliere dell’apocalisse televisiva euforizzava se stesso e le proprie platee, figliano precisamente Matteo Salvini, primogenito in epoca social. C’è una continuità profonda tra il multimilionario e l’ex nullafacente apparso sulle di lui televisioni, così come l’antropologia digitale italiana è di fatto un parto dell’emittenza televisiva che l’ha preceduta. L’involgarimento eletto a norma, l’abbattimento delle intercapedini tra vero e falso, la finzionalizzazione continua che da trent’anni sta sempre dietro uno schermo, poco importa se di tv o di smartphone: la sostanza, tra berlusconismo e salvinismo, è la medesima. Mentre gli italiani fanno a gara a chi impiatta meglio e condivide prima, oppure immortala vettovaglie nei ristoranti sempre pieni, il figlio dell’epoca berlusconiana spedisce nell’etere non la leccornia, ma la cibaglia trash, con tanto di brand. Si sbaglia a non cogliere la continuità e la contiguità con il passato.

La pubblicità Rovagnati agli albori della tv commerciale, la surrealtà nipponica della Kaori testimonial del formaggio fresco, la chimica da sottiletta e sofficino a cui fu sottoposta la generazione nata nei Settanta (quindi Salvini e Renzi, non Di Maio) non avrebbe tardato a maturare i suoi esiti. Ecco: Salvini è un esito, non una causa. Bisogna ricordarselo sempre, molto più dell’adagio per cui l’uomo è ciò che mangia.